L’antropocentrismo può distruggere la specie umana. Intervista a Maurizio Pallante

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Come l’antropocentrismo può distruggere la specie umana. Riduzione degli sprechi e delle merci inutili. Intervista a Maurizio Pallante

Di Rosario Mascia

Nel tuo ultimo volume c’è un capitolo intitolato “L’antropocentrismo può annientare la specie umana”. Ritieni che questa sia una prospettiva da prendere in considerazione?

La deriva culturale che stiamo vivendo non consente di escludere questa prospettiva. Per capire a che punto è già arrivata basta ricordare lo slogan con cui è stata presentata l’Expo di Milano: Nutrire il pianeta. Qualsiasi persona con un minimo di conoscenze scientifiche sa che non è la specie umana con la tecnologia a nutrire il pianeta, ma è il pianeta con la fotosintesi clorofilliana a nutrire la specie umana e tutte le altre specie viventi. Questo è il risultato della follia antropocentrica. Anche se probabilmente quello slogan voleva intendere che bisogna farsi carico dei bisogni di 800 milioni di esseri umani che non riescono ad avere un’alimentazione sufficiente, non si può identificare il pianeta con la specie umana. La specie umana è solo una piccola parte delle specie viventi che abitano la terra.

Tu sei stato tra i fondatori della Movimento della Decrescita Felice, non sei più il presidente da diversi anni, però ovviamente rimane questo concetto, che è stato ripreso da più parti, o in antagonismo, o interpretandolo malissimo. Vogliamo chiarire cosa significa decrescita felice?

La scelta dell’aggettivo felice accanto alla parola decrescita è stata una scelta che ho fatto nel titolo di un libro pubblicato nel 2005. Innanzitutto, la maggior parte delle persone, in buona o cattiva fede, crede che la decrescita sia la recessione, ma non è così. Perché non ci sarebbe neanche bisogno di trovare una parola nuova per definire un concetto che già esiste nella scienza economica, no? La recessione è la diminuzione generalizzata e incontrollata in tutta la produzione di merci e la conseguenza più grave che provoca è la disoccupazione. La decrescita invece è la riduzione selettiva e governata della produzione di merci che non hanno oggettivamente nessuna utilità. Non è una teoria dei bisogni che pretende di stabilire cosa sia utile o inutile, o superfluo per tutti. Sto parlando di cose oggettivamente inutili e/o dannose. Quali? Per esempio l’energia che si spreca in un edificio mal costruito. Non conosco nessuna persona che vada a comprare una casa chiedendo: “Mi dia la più dispersiva possibile e piena di spifferi, tanto io ho i soldi per pagarmi il riscaldamento”. E non conosco nessuno che vada a fare la spesa dicendo: “Mi dia un chilo di carne perché la devo buttare”. La decrescita è la riduzione degli sprechi e delle inefficienze. Non solo nei consumi finali, ma anche in conseguenza dell’uso di tecnologie arretrate. Basta pensare ai nostri acquedotti che disperdono fino al 60% dell’acqua che pompano dalle falde idriche, potabilizzano e trasportano fino agli utilizzatori finali: abitazioni, industrie e attività agricole. O la quantità di materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi che vengono portati allo smaltimento negli inceneritori e nelle discariche. La decrescita è la riduzione degli sprechi, della produzione di merci che non hanno nessuna utilità, che creano dei danni. E se si fa una scelta di questo genere si crea occupazione. Anzi è l’unica maniera di creare un’occupazione utile che ripaga i suoi costi con i risparmi economici conseguenti alla riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale.

Queste sono riflessioni che ho maturato a partire dagli insegnamenti che ho ricevuto negli anni ottanta da un ingegnere che era il responsabile dei servizi termotecnici del centro ricerche Fiat. Io come ambientalista sono partito ingenuamente pensando che la soluzione dei problemi energetici fosse la sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili, mentre invece occorre una strategia complessiva che parte dalla riduzione degli sprechi perché, per fare un esempio eclatante, se il nostro patrimonio edilizio spreca fino al 70% dell’energia che utilizza, a che serve produrre energia pulita per poi disperderla inutilmente? Il primo passo è ridurre gli sprechi, il secondo passo è sostituire le fonti fossili con le fonti rinnovabili. In questa maniera si crea molta più occupazione. E, lo ripeto, un’occupazione che paga i suoi costi con i risparmi che consente di ottenere,

Quindi nuova occupazione, per ridurre gli sprechi?

Esatto, la conversione energetica, ad esempio, significa ristrutturare le case, creando molta occupazione nell’edilizia e in tutti i settori connessi, dai vetrai, ai falegnami, ai geometri, agli ingegneri, agli elettricisti e così via, con l’obbiettivo di ridurre i consumi degli edifici a parità di benessere. Ma chi paga tutta questa forza lavoro? La riduzione dei costi derivante dalla riduzione degli sprechi. Questo mi porta a dire che occorre sviluppare delle tecnologie che ci consentano di rendere direttamente proporzionali i vantaggi economici e i vantaggi ecologici, perché se la ecologia viene interpretata come una scelta che comporta dei costi in più ma che va fatta perché è giusta eticamente, il numero delle persone che si convincono di questa idea è abbastanza limitato.

È ciò che diceva Alex Langer: La conversione ecologica deve essere socialmente desiderabile…

Se si dimostra che utilizzando tecnologie più efficienti è possibile far diventare economicamente interessanti delle scelte ecologicamente valide, il numero delle persone che le accetta diventa molto più alto. La scelta del super bonus per ristrutturare energeticamente le case è l’attuazione di un’idea che avevamo formulato tanti anni fa in un libro scritto col mio maestro ingegnere. Però è stata realizzata male, perché dal momento che lo Stato paga tutti i costi dell’intervento e al termine di questa operazione il costo della bolletta energetica si riduce dei 2/3, o anche di più, e inoltre aumenta il valore catastale dell’immobile, sarebbe giusto che chi ha avuto questi benefici restituisca allo Stato sotto forma di canone mensile per un certo numero di anni almeno una parte del contributo che ha ricevuto. In questo modo lo Stato si garantisce un flusso di introiti per finanziare la ristrutturazione di altre case. Non si porrebbe più il problema di interrompere i finanziamenti nel 2022 o nel 2023, perché si metterebbe in moto un meccanismo virtuoso.

Quindi si può far ripartire l’economia attraverso la decrescita?

Noi vogliamo che l’economia riparta con forza nei settori produttivi che riducono l’impatto ambientale e la crisi ecologica. Questo è l’unico modo di superare la crisi economica e attenuare la crisi ecologica. L’alternativa è fare il ponte di Messina, il TAV in Val di Susa, le grandi opere che non ripagano i loro costi e aggravano la crisi ecologica. È un caso che siano opere che nessun privato vuole finanziare? Che si realizzano solo se le paga lo Stato, facendo debiti che pagheranno le generazioni future? Questo vuol dire che sono scelte economicamente svantaggiose ed ecologicamente dannose. Peggio di così non si potrebbe.

Quale occasione può essere migliore che quella del PNRR? Ma probabilmente è stata sprecata.

Io sono convinto che è stata sprecata. Si capisce dal titolo stesso: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Che significa ripresa? Riprendere a fare quello che si faceva prima della pandemia. Ma se quello che si faceva ha costretto a chiudere la popolazione in casa e a fermare l’economia, se si riprende a fare quello che si faceva prima, si riprodurranno le cause che hanno causato la più grave crisi economica del modo di produzione industriale. E la resilienza? Si sta facendo un abuso indebito e ridicolo di questa parola, che esprime un concetto della scienza dei materiali, dove indica la capacità di un materiale di resistere a un urto senza deformarsi irrimediabilmente. Quindi la resilienza è un dato immodificabile. Questo concetto è stato applicato all’ecologia e indica gli interventi che si possono fare per consentire agli ecosistemi di resistere agli eventi meteorologici estremi senza collassare. La resilienza di un ambiente si può aumentare. Se non si costruisce in un’area golenale le piene del fiume non distruggeranno le case. Se non si tagliano tutti gli alberi su una collina si possono contenere le frane. Però se ci si pone l’obiettivo di aumentare la resilienza si dà per scontato che con la ripresa i colpi degli eventi climatici estremi sugli ambienti diventeranno sempre più forti, per cui occorre prepararsi a sostenerli. Questa purtroppo è un’illusione perché l’intensità degli eventi meteorologici estremi causati dall’aumento dell’effetto serra è aumentata al punto che non è possibile evitare il collasso degli ambienti che colpiscono. Le recenti alluvioni in Cina, in Germania, in Spagna e negli Stati Uniti lo dimostrano. Se non si lavora per ridurre le cause degli eventi meteorologici estremi, che si stanno aggravando e si aggraveranno ancor più se l’economia riprenderà a crescere, è velleitario pensare che si possano salvaguardare gli ecosistemi aumentando la loro resilienza. Sarebbe stato più utile proporsi un piano nazionale di cambiamento, non di ripresa. Solo in questo modo si potrebbe pensare di rafforzare la resilienza in modo efficace e non velleitario. Ma questo è il tempo dei Gattopardi dell’ecologia, che fanno passare addirittura per ecologiste le proposte di ridurre le valutazioni d’impatto ambientale perché ritarderebbero la realizzazione delle grandi opere presentate come vantaggiose ecologicamente, mentre tutt’al più sarebbero vantaggiose per l’economia a danno dell’ecologia.

Che rispondi a chi sostiene che la decrescita felice non è lo sviluppo sostenibile.

Grazie al cavolo! La bicicletta non è la motocicletta. Sono due cose diverse: lo sviluppo sostenibile è un’operazione che utilizza le parole in maniera tale da annullarne il significato. Un conto è la sostenibilità, che riguarda il rapporto tra la specie umana e l’ecosistema terrestre. Affinché questo rapporto possa continuare nel tempo, la specie umana non deve consumare più risorse di quelle che la biosfera è in grado di rigenerare anno per anno, non deve emettere più sostanze di scarto di quelle che la biosfera è in grado di assorbire e metabolizzare anno per anno (sto parlando dell’overshoot day e dell’effetto serra), non deve produrre sostanze non metabolizzabili dai cicli biochimici (la plastica che si accumula in mare, etc). Questa è la sostenibilità. Nel concetto di sviluppo sostenibile viene invece presa in considerazione la possibilità – illusoria – di rendere sostenibile la finalizzazione dell’economia allo sviluppo economico e produttivo. Il focus è lo sviluppo. La sostenibilità non viene formulata come sostantivo, ma come aggettivo dello sviluppo, che è la definizione paracula della crescita. Tanto è vero che quando il Club di Roma commissionò a un gruppo di studiosi del MIT una ricerca sui problemi ambientali e sociali causati dalla crescita, il libro che ne raccoglieva i risultati fu pubblicato nel 1972 col titolo di Limits to growth (I limiti della crescita), che venne tradotto in Italiano col titolo I limiti dello sviluppo. Si è sempre cercato di confondere l’opinione pubblica con definizioni che attenuano nell’immaginario collettivo i problemi ecologici causati dalla crescita economica. Gli inceneritori sono stati chiamati termovalorizzatori. Per installare una fila di tralicci alti 100 metri (un palazzo di 9 piani è alto 27 metri) occorre disboscare non solo i crinali delle colline, ma anche i loro pendii per fare le strade d’accesso a giganteschi automezzi che trasportano i materiali per costruirli. Eppure vengono chiamati Parchi eolici, perché nel nostro immaginario la parola parchi evoca luoghi naturali fitti di alberi.

Le parole sono importanti, come direbbe Nanni Moretti.

Ci hanno fregato con le parole. Mi piacerebbe fare prima o poi un elenco delle parole utilizzate per veicolare significati diversi da quelli che hanno in realtà, col fine di ottenebrare le menti. Sai che a Taranto, al limite dell’area dell’acciaieria che confina col quartiere Tamburi, c’è una collinetta lunga un chilometro in cui vengono accumulati gli scarti di produzione della lavorazione dell’acciaio. Sono polveri che contengono ferro e altre sostanze. Sai come la chiamano questa roba all’aria aperta di materiali inquinanti, che il vento poi trasporta nelle case dall’altro lato della strada? Parco minerario. È veramente repellente l’uso delle parole che viene fatto per stravolgere il significato di quello che succede.

Non c’è un modo per immaginare un mondo nuovo? Come dicono i ragazzi, gli attivisti per il clima che continuano per fortuna a protestare.

Se non avessi speranze andrei al mare, a giocare a tennis, in bicicletta, in attesa della fine del mondo. C’è chi sostiene che la speranza sia la disperazione vinta, sconfitta. Non c’è speranza se non si parte da un elemento di disperazione. Pasolini scriveva “non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza”. Per me la speranza consiste sostanzialmente in due cose. La prima è un cambiamento del sistema dei valori, che ridia importanza alla dimensione spirituale. La spiritualità non è la fede. La fede alcuni ce l’hanno e alcuni no. La spiritualità è un elemento costitutivo degli esseri umani, che non sono soltanto corpo, non hanno solo esigenze materiali, non sono solo esseri calcolanti, ma provano sentimenti e hanno bisogno di relazioni disinteressate, fondate sull’amore e sul dono reciproco del tempo. Che soffrono, s’innamorano, si entusiasmano, si deprimono, s’incantano davanti a un tramonto, vengono rapiti dalla musica. La società che misura il benessere col Pil, cioè con l’acquisto di merci, che stimola l’avidità di possesso, che ha trasformato il denaro da mezzo di scambio a fine della vita, ci ha appiattiti sulla dimensione materialistica. Per uscire da questa dimensione che ci sta autodistruggendo come specie, occorre riscoprire la nostra dimensione spirituale e valorizzarla. Non per disprezzare la parte materialistica, perché anch’essa fa parte degli esseri umani, ma per capire che non è tutto. Questo è il primo obbiettivo che dobbiamo porci. Il secondo è indirizzare la ricerca scientifica a sviluppare tecnologie più avanzate di quelle che abbiamo oggi, ma finalizzate a ridurre la nostra impronta ecologica. A rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. Se si sta a disagio nel presente, non bisogna pensare di tornare indietro, ma occorre andare avanti in una direzione diversa. Per fare una casa che offre una situazione di benessere termico consumando poca energia perché non ne spreca, ma la usa con la massima efficienza, ci vuole più tecnologia di quella che occorre per costruire una casa che ne spreca il 70%. Per uscire dall’attuale crisi ecologica occorre muoversi in due direzioni: quella dei valori, recuperando la dimensione spirituale, e quella scientifica sviluppando innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre la nostra impronta ecologica senza diminuire il ben-essere. Il ben-essere è la sintesi del benessere spirituale col benessere materiale, che si può conseguire senza superare le capacità della biosfera di rigenerare le risorse che consumiamo e di assorbire le sostanze di scarto che emettiamo con le nostre attività.