Nella terra dei panda e del riso

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Nella terra dei panda e del riso

Testo e foto di Roberto Cazzolla Gatti

Viaggio nella Cina in lotta tra crescita economica e necessità di conservazione


 

La Grande Muraglia cinese rappresenta una sorta di frammentaria spina dorsale di un gigante che un tempo cercava il dominio sul mondo attraverso la potenza militare e che ora, a distanza di oltre due millenni, basa la sua forza sullo sviluppo economico. Di quei quasi 9.000 km di alte barriere, costruite per impedire l’invasione dei molti nemici che un gigante si fa in migliaia di anni di battaglie contro popoli vicini e lontani, oggi ne restano lunghi tratti ben conservati offerti in visita ai tecnologizzati turisti moderni. Una passeggiata, anche di pochi chilometri, su uno qualunque dei frammenti visitabili della muraglia è un viaggio a ritroso nel tempo che riporta alla mente il sacrificio compiuto da migliaia di uomini, schiavizzati e costretti ai lavori forzati per costruire quel colosso, e le innumerevoli guerre che si sono combattute lungo i suoi due fianchi.

La potenza di un immenso paese si snoda lungo il sinuoso percorso su e già per valli e colline sino a confluire nel baricentro geopolitico dell’Asia orientale, la capitale Pechino. Lì, nel bel mezzo della Piazza Rossa, si staglia il ritratto di Mao a vegliare su un nuovo modello di crescita, stavolta ben più capitalistica, che si è allontanato di molto dal proselitismo catechizzato nel Libretto rosso del dittatore rivoluzionario.

Eppure, la Cina di oggi e la megalopoli Pechino, in particolare, per quanto conservino tracce indelebili di storia antica, come la Città proibita, un tempo impenetrabile dimora degli imperatori, vivono una fase di rinascita economica che rende la stazione di partenza della via della seta quanto mai moderna e globalizzata. Se non fosse per le restrizioni imposte alla navigazione web e lo smog, il turista si accorgerebbe difficilmente di essere in un paese a cavallo tra cruenti statisti e uno sviluppo devastante.

La realtà, che emerge da una conoscenza più approfondita dell’Oriente, è che il boom economico della Cina si sta basando prevalentemente, più che sul progresso tecnologico, sulla produzione di beni a basso costo con alto rapporto quantità/prezzo (ovvero bassa qualità, costo minimo, massima quantità). Il turista occidentale lo percepisce, a casa più che in visita nella repubblica del riso, ogni qual volta si trova dinanzi a un prodotto “Made in China”. Questo modello di sviluppo viene reso possibile da una frequente violazione dei diritti umani (con salari bassissimi, sfruttamento del lavoro e dei minori, scarse tutele per gli operai, etc.), della salute umana (alti livelli di sostanze pericolose, contaminazione da pesticidi e agenti chimici cancerogeni, impiego di materiali tossici, etc.) e dell’ambiente (elevato inquinamento idrico, atmosferico, del suolo, allarmante deforestazione, cementificazione senza freni, etc.).

L’altra Cina

Basta allontanarsi dalla capitale, muovendosi verso le alte vette del Sichuan per immergersi in un mondo di quiete e bellezza. In questa regione nel cuore del dragone rosso, templi taoisti si alternano a montagne sacre sormontate da statue del Buddha, ammantate da una nebbia fiabesca. In queste terre remote, raggiungibili in qualche ora di volo dalle metropoli più grandi e visitabili grazie a un nuovo comodo collegamento ferroviario dalla piacevole città di Chengdu, si dipana un territorio di fascino e mistero, reso ancor più interessante dalla presenza unica degli ultimi gruppi di panda gigante (Ailuropodamelanoleuca) esistenti al mondo. Alle pendici del monte Emei (o Emeishan come lo chiamano i locali), punteggiato da incantevoli rifugi spirituali, dove si riuniscono monaci in meditazione, macachi tibetani smaniosi di ricevere (o rubare) merendine ai turisti ed esploratori improvvisati, e troneggiato dall’immensoBuddha dorato della Golden Summit che sfigura solo in confronto alla statuain pietra, lapiù grande al mondo, di Leshan (a pochi chilometri dalla vetta sacra), si estendono quelle che un tempo erano le foreste di bambù degli orsi “dal pollice opponibile”. Quei buffi animali mascherati con occhi e orecchie color carbone, un tempo diffusi in buona parte della Cina centro-meridionale, oggi si ritrovano confinati in un areale limitato, all’interno di piccole riserve che attraversano da nord a sud la provincia del Sichuan (oltre a viverein un lembo di foreste nella provincia dello Shaanxi).

Centri di riproduzione

Il paese sta compiendo notevoli sforzi, anche economici, per sostenere programmi di riproduzione della specie. Lo conferma la presenza di avanzati centri di ricerca come quelli, tra gli altri, di Chengdu e Bifengxia (allestito dopo il devastante terremoto che ha distrutto il grande centro di Wolong, più a nord), che da molti anni sono impegnati nel garantire alla specie un futuro mediante inseminazione artificiale e incubazione dei cuccioli durante le prime settimane di vita. Questi centri di riproduzione, collocati in aree che simulano l’habitat naturale del panda gigante e del suo cugino più piccolo, il panda rosso minore (Ailurusfulgens), svolgono un ruolo importante per preservare la specie e diffondere nell’opinione pubblica interesse per la salvaguardia di questo animale. Ovunque, nella provincia e in buona parte della Cina, si possono trovare peluche, statue, manifesti e immagini di paffuti orsetti bianchi e neri pronti a comunicare “benvenuti”, “arrivederci” e qualunque altra esclamazione che il marketing ha voluto associare a questo eroe nazionale. Nonostante tutto questo impegno, il panda gigante è una delle specie a maggior rischio di estinzione. Sebbene le incubatrici e le nursery dei vari centri distribuiti nel paese siano pieni di graziosi cuccioli in attesa di biberon da madri umane surrogate e di sguardi inteneriti e, a volte invadenti, dei turisti disposti a tutto pur di osservarli e, per quanto la gestione di queste aree di riproduzione sia impeccabile da parte del governo, il problema fondamentale è che la maggior parte, se non la totalità, dei nuovi nati è destinata alla cattività. Da qualche anno, il governo cinese sta cercando di creare soluzioni per la reintroduzione in ambiente naturale di alcuni esemplari nati nei centri, ma sino ad oggi sono infrequenti i casi di cuccioli nati in cattività e poi reintrodotti in natura.

D’altra parte, gli individui appartenenti a gruppi selvatici non raggiungono le 2.000 unità e il loro censimento, più che sulla conta diretta in luoghi impervi e, spesso, inaccessibili è basata sull’identificazione di tracce al suolo, che rende la stima molto variabile. Inoltre, dei panda in libertà si sa ancora ben poco, nonostante la più grande associazione ambientalista al mondo, il WWF, ne abbia fatto un simbolo di conservazione già da decenni. Molti dei documentari e degli studi scientifici vengono girati e condotti proprio nei grandi recinti dei centri di riproduzione, dove filmare, avvistare e monitorare gli animali è molto più semplice e comodo. Sono ben pochi, persino tra i documentaristi e i biologi specializzati, coloro che hanno avuto la fortuna di avvistare un panda libero tra le foreste del Sichuan per documentarne il comportamento in natura.

Una specie portata all’estinzione

In molti pensano che il rischio di estinzione del panda gigante sia dovuto alla sua “pigrizia riproduttiva” e alla scarsità di bambù, l’unico cibo di cui si alimenta e che, essendo costituito prevalentemente da cellulosa e fibre, deve essere consumato in grandi quantità per poter permettere a un animale di una cosìnotevole stazza di acquisire le calorie necessarie alla sua sopravvivenza. Invece, come nel caso del più minuto koala in Australia che si alimenta esclusivamente di foglie di eucalipto trascorrendo buona parte della giornata sonnecchiando, non è il fare sornione o la mancanza di piante a minacciare maggiormente la specie. Purtroppo, la stessa ingorda crescita economica, che ha portato qualche beneficio al popolo cinese, ha ridotto, d’altra parte, a pochi frammenti gli ecosistemi originali del panda gigante e delle altre specie endemiche per far posto a immense risaie, autostrade, enormi centri urbani e tutto ciò che garantisce all’uomo lo sviluppo e, allo stesso tempo, alla natura selvaggia la sua scomparsa.

Dopo aver osservato le impeccabili cure e l’ossessiva attenzione dedicata dalla Cina e dal mondo intero alla tutela dei panda giganti e aver constatato, allo stesso tempo, che l’impegno economico e sociale non ha minimamente impedito all’inarrestabile progresso umano di deforestare oltre l’80% del habitat naturale di questo rarissimo orso vegetariano e che, anzi, l’opera devastatrice dell’ambiente prosegue oggi più che mai, spinta dalla competitività del mercato libero e dall’esponenziale crescita dell’umanità (che in Cina ha superato ogni limite), aspetti raramente contestati persino dalle più ben intenzionate associazioni ambientaliste, viene da chiedersi se la protezione della natura non debba, una volta per tutte, divincolarsi dalle dinamiche economiche e riflettersi in azioni ecologiche significative. Piuttosto che investire ingenti somme di denaro in centri di riproduzione, che molto spesso altro non sono che zoo travestiti da enti di ricerca, e in effimeri progetti di reintroduzione che, sino ad ora, non hanno portato a molto (sottraendo risorse economiche ad altri ben più rilevanti programmi di protezione della biodiversità), non sarebbe (stato) più efficace impedire al mostro divoratore di risorse naturali, chimera tra il capitalismo dei beni e il comunismo di facciata, di trasformare quei monti di silenzio in brulle terre e quelle valli di pace in allagate risaie, prima di scoprire che la Cina intera, anzi che tutto il mondo, ama i panda? Non una specie destinata all’estinzione, ma una specie portata all’estinzione dall’uomo che ora la culla… in un recinto.