Parlare di dieta sostenibile significa sposare un modello alimentare con basso impatto ambientale e che contribuisce alla sicurezza alimentare ed in particolare, nutrizionale, non solo del singolo ma della popolazione globale
di Antonello Barile
Quando si parla di sostenibilità si fa generalmente riferimento ad aspetti ecologici, economici e sociali il cui significato specifico è legato al contesto con cui ci si rapporta.
Parlare di dieta sostenibile significa sposare un modello alimentare con basso impatto ambientale e che contribuisce alla sicurezza alimentare ed in particolare, nutrizionale, non solo del singolo ma della popolazione globale. Un prerequisito della dieta sostenibile consiste nel preservare la biodiversità che significa prosperità di specie e ricchezza di nutrienti diversi che soddisfino i bisogni nutritivi di tutti.
In questi ultimi anni, come conseguenza di un processo di modernizzazione delle tecnologie di produzione dei beni alimentari in contrasto con il principio di genuinità tipico dei cibi consumati dalle generazioni passate, si è avuto un progressivo impoverimento della qualità nutrizionale dei cibi proposti. Di conseguenza, la perdita di nutrienti dei cibi e l’insufficiente diversità della dieta favoriscono l’insorgere delle malattie derivate dalla malnutrizione.
Protezione ambientale ed efficienza
La protezione ambientale che preserva i sistemi ecologici e l’efficienza intesa come misura di come vengono usate le risorse naturali per ottenere il cibo di una certa dieta e quantificata come rapporto tra entrate ed uscite, rappresentano due dimensioni della sostenibilità ambientale.
L’agricoltura, ad esempio, è una pratica di produzione che partendo da una prospettiva prettamente ecologica sfrutta risorse dirette per catturare l’energia solare che successivamente viene trasmessa all’uomo attraverso il consumo del raccolto. Per millenni, l’agricoltura ha rappresentato un “sistema complesso” fatto di policolture. Dal confronto delle uscite, intese come cibo prodotto, con le entrate, ne derivava che quest’ultime erano ridotte e consistevano precisamente di energia solare, acqua piovana e concime animale da usare come fertilizzante.
Con l’avvento dell’agricoltura industrializzata, la fattoria di una volta diventa un’impresa che produce monocolture perché una singola azienda fornisce generalmente un unico tipo di cibo. Le entrate principali sono rappresentate da energia non rinnovabile derivata dal carbone fossile, quantità elevate di composti chimici, come quelli azotati e l’acqua usata per l’irrigazione. Queste entrate elevate di energia nell’agricoltura moderna hanno aumentato fortemente la produzione di cibo con un successivo sbilanciamento dei consumi energetici in entrata e un vertiginoso aumento delle uscite. Di conseguenza, secondo la prospettiva energetica, il sistema attuale di produzione di cibo non è sostenibile.
L’allevamento di bestiame da usare come alimento per gli esseri umani è un processo intrinsecamente improduttivo. Effettivamente, salendo lungo la catena trofica si assiste ad una progressiva perdita di energia. Attualmente, il bestiame viene alimentato con cereali provenienti da agricoltura intensiva. Diversi autori hanno calcolato il rapporto di efficienza energetica degli animali (espressa in kg di cereali su kg di carne prodotta) confrontandolo con quello dei vegetali consumati dall’uomo. Ad esempio la quantità di cereali necessaria per produrre la stessa quantità di carne varia da 2,3 kg per il pollo a 13 kg per il vitello. Pimental e Pimental hanno stabilito che in media è richiesta una quantità di energia fossile 11 volte più grande per produrre proteine animali rispetto a quelle vegetali, destinate al consumo umano. Il rapporto di efficienza energetica per proteina varia enormemente tra un tipo di carne ed un altro. Ad esempio, la quantità di spazio richiesta per la coltivazione di cereali da usare come mangime per produrre proteine animali è da 6 a 17 volte più grande di quella necessaria per produrre le proteine della soia. Ne consegue che la conversione del cibo vegetale in alimenti di origine animale è un processo inefficiente.
La produzione del cibo destinato al consumo umano, in particolare attraverso pratiche agricole moderne, causa delle significative emissioni di gas serra che possono derivare direttamente dall’emissione dell’anidride carbonica originata dal combustibile fossile o dalla catena di produzione, lungo la quale si producono emissioni di ossido di azoto e di metano. Le emissioni per unità di prodotto animale variano in base al tipo di animale considerato. Generalmente, sono più alte nel caso di allevamenti di ruminanti come vitelli e pecore rispetto agli allevamenti di maiali e polli. L’inquinamento chimico causa problemi di acidificazione e di zone morte nei laghi e nelle aree limitrofe delle coste; ancora, provoca degradazione della qualità del suolo, cambiamento degli habitat e perdita della biodiversità. Studiare la condizione di salute di un ecosistema è fondamentale per adottare dei modelli di gestione delle risorse e dei prodotti in modo da rendere tutto il processo efficiente in termini energetici.
Il monitoraggio ambientale delle acque interne
Lo stato di salute delle acque interne rappresenta un “termometro” del progressivo aumento della contaminazione ambientale dovuta all’inquinamento chimico che provoca cambiamenti significativi nell’equilibrio di un ecosistema. Gli ambienti di acqua dolce lotici (acque correnti), lentici (acque non correnti), di transizione e le zone umide sono ecosistemi altamente produttivi, che danno rifugio e alimento a migliaia di specie animali e vegetali.
Gli organismi mostrano un limite di accettabilità nei confronti di inquinanti immessi nella biosfera in seguito ai processi di antropizzazione; oltrepassata tale soglia si scopre, nel tempo, tutta una serie di effetti che hanno un impatto negativo sull’intero ecosistema. La presenza di ossidanti e di microelementi introdotti con le continue concimazioni derivate dalle moderne tecniche agrarie, di detersivi ed altre sostanze recalcitranti è mal tollerata dagli organismi che sono obbligati ad adattarvisi per sopravvivere. La conseguenza più evidente di un tale inquinamento è la diminuzione delle potenzialità riproduttive delle specie con conseguente, sebbene a lungo termine, diminuzione della biodiversità.
Lo studio della diversità biologica che caratterizza un ecosistema rappresenta la base di partenza per valutare le possibili trasformazioni nel tempo. La biodiversità, effettivamente, è una misura della varietà di specie animali e vegetali nella biosfera; essa è il risultato di lunghi processi evolutivi che, da oltre tre miliardi di anni, permettono alla vita di imporsi, al variare delle condizioni sulla terra. L’evoluzione, però, deve continuare ad operare perché il nostro pianeta possa ospitare forme di vita in futuro.