Diario: Itinerario d’Africa nella geografia di Liliana Adamo

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Itinerario d’Africa

Diario: Itinerario d’Africa nella geografia


di Liliana Adamo e Fotografie di Marco Gaiotti

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Itinerario d’Africa

Un itinerario d’Africa ricco di suggestioni: dagli alberi spettrali del Deadvlei, al “Fumo che tuona” sul fiume Zambesi; dalle Pianure del Savuti, al Cratere di Ngorongoro. Attraverso le fotografie di Marco Gaiotti, l’Africa dei grandi scenari naturali, accompagnata da un atavico “Cuore di Tenebra”.

Una sorta di Saudade colpisce il viaggiatore dopo aver percorso anche un solo tassello che compone lo scenario per il “più antico dei Continenti”. Sull’onda di un Mal d’Africa (o Africa blues), l’idea di scrivere quest’articolo nasce da una suggestione, anzi, da due complementari: la lettura di un romanzo rapsodico come “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad e le riprese fotografiche di Marco Gaiotti che si spinge, di volta in volta, attraverso varie destinazioni.

Un viaggio suggerito da letteratura e fotografia, due elementi che non combaciano, l’uno non si attiene all’altro ma in cui resta intatto il richiamo potente della natura legata al destino controverso dell’umanità e non potrebbe essere altrimenti.

Sebbene i nomi dei luoghi, del fiume e della foresta, non siano mai menzionati, il racconto visionario di Conrad si svolge in Congo: un raffronto fra la danza macabra della follia occidentale in un’Africa oscura di fine Ottocento e la Saudade post moderna, con il turismo low coast e i safari fotografici, può sembrare, di fatto, una forzatura.

Eppure l’Africa è esattamente questo: una terra di contrasti, che si muove tra ciò che è avvenuto e contemporaneità, dove il peso di problematiche socio politiche, dell’ingiusta organizzazione economica, o ancora, il depauperamento per le risorse naturali e la strenua lotta per difenderle, deriva soprattutto da quell’eredità oscura del colonialismo. Tentare di superare il gap non è esclusivamente una questione inerente alle leggi, alle istituzioni e le amministrazioni, in una parola, alla democratizzazione ma appare oggi come condizione legata alla difesa dell’ambiente. Preservare un capitale di conoscenza e bellezza, qual è la grande natura in Africa, può cambiare in meglio il tenore di vita, valorizzare le identità etniche, elaborare la propria strategia per il futuro.

Il “Cuore di Tenebra” è pervaso da un’opprimente darkness che per Conrad è il vero volto della obsoleta società occidentale, un’oscurità essenziale non accettata come propria, scaraventata semmai sulle culture “altre”. Nel fulcro del racconto si gioca la partita a due tra Marlow e Kurtz, ma i veri protagonisti sono la natura selvaggia, inesplorata, il fiume Congo, le foreste, le voci tribali di un’Africa primordiale, impenetrabile e respingente.

Itinerario d’Africa

Fra dune, deserti e polvere di Marte, la prima tappa è in Namibia.

Difficile immaginare un territorio controverso come quello della Namibia in mano ai colonizzatori tedeschi preoccupati più che altro, d’estrarre diamanti; tra il deserto del Kalahari e l’Atlantico meridionale, difficile immaginarli in quegli spazi sterminati, nel paese più arido a sud del Sahara, in 360 giorni l’anno di sole accecante.

Proprietà dell'Impero tedesco dal 1884 al 1919 col nome di Deutsch-Sudwestafrika, parte dell'Impero britannico con l'Unione sudafricana, provincia del Sudafrica fino all'indipendenza ottenuta nel 1990, la Namibia, oggi, rappresenta una vera roccaforte del turismo comunitario in cui la difesa della natura è parte integrante della Costituzione. Lo stesso Ministero dell’Ambiente e Turismo è impegnato in un’unità di lavoro (il progetto Community-Based Natural Resource Management), che coordina egregiamente lo stato di conservazione e lo sviluppo economico. Come affermare, l’uno è correlato all’altro.

Il governo centrale ha quindi incoraggiato la creazione di villaggi e campi gestiti direttamente dalle etnie locali: il miglior modo per avvicinarsi a una Namibia autentica, incrementare il turismo eco-compatibile, aiutare le popolazioni indigene. Nelle zone rurali si allestiscono le “Conservancies”, unità autoctone, terre e fattorie comunitarie nelle quali si sovrintendono difesa ambientale e sviluppo economico. Un modello di “Conservancy” è Torra, cioè, le terre dei Damara (Damaralands), fra le prime etnie originarie insieme ai San – Boscimani, ai Nama, seguiti poi da diversi gruppi Bantu, come gli Herero e gli Ovambo.  La maggioranza dei lavoratori è parte integrante della comunità, vive di turismo ed è particolarmente impegnata a proteggere la fauna selvatica dal bracconaggio. Le guide Damara sono orgogliose di mostrare antilopi, elefanti e rinoceronti neri (n’è restano soltanto pochi esemplari al mondo), ai viaggiatori venuti da lontano solo per godere di queste bellezze.

Per la sua attività di fotografo naturalista, Marco Gaiotti si è avvicinato al continente africano durante un primo viaggio avvenuto in Namibia dove, presumibilmente, l’impatto è stato forte. Quell’Africa blues cui si diceva, quel Saudade subsahariano, gli impone di tornare anche più di una volta nell’arco di un anno, districando le sue tappe fra Zambia, Botswana, Zimbabwe, Kenya, Tanzania, Sudafrica, Uganda.

Sono stato in Africa la prima volta nel 2007, in Namibia, e da allora cerco di tornarci ogni volta che posso…

L’Africa è un concetto, un’idea che si forma in testa prima ancora di averla vista. Fin da bambini la associamo al luogo selvaggio per definizione, dove l’ambiente appartiene ancora completamente al regno animale. Devo ammettere che l’impressione iniziale non è poi diversa da come uno se la immagina, soprattutto nelle aree più lontane dalla civiltà, come buona parte dell’Africa Australe. Nel momento in cui ci metti piede, è normale fermarsi con stupore per qualsiasi cosa incontri per strada: poi col tempo si diventa più esigenti, si cerca la situazione rara, possibilmente con una luce ottima.

Ho sempre amato la fotografia ambientata, e l’Africa offre grandi opportunità da questo punto di vista: a volte è la situazione meteorologica, le piante o il deserto a fare da contorno alla vita animale, altre volte è semplicemente il cielo con le sue nuvole marcate a incorniciare e rendere indimenticabile la scena.

In Namibia, amo particolarmente la zona desertica a ridosso della costa atlantica. Qui, fra dune di sabbia e valli aride si trova un’inaspettata presenza di fauna in un habitat a dir poco mozzafiato”.

Gli altopiani ricoperti di bush (cespugli) e disseminati di pan (bacini endoerici che nelle stagioni più secche si ricoprono di sale), attraversano quasi l’intera Namibia per sfociare nel deserto del Namib con le sue dune piramidali, forse il più antico del mondo. I pan più scenografici sono quelli del Sossusvlei e un altro, molto esteso che si trova all’interno del Parco Nazionale d’Etosha. I pan richiamano numerosi e svariati uccelli migratori, che si ricongiungono a riposare sulle rive, creando uno spettacolo senza eguali. Al Sossusvlei ci sono le dune più alte del mondo: “Big Daddy” (390 metri d’altitudine) e la famosissima “Duna 45”, con la sua sabbia colorata in tutte le sfumature di rosso. Gli ossidi di ferro che sprigionano queste accese gradazioni, sono gli stessi presenti nelle aree secche su … Marte! Altra curiosità: la costa namibiana è definita come “il deserto freddo” in un paese tropicale ciò è dovuto a una disposizione climatica, la corrente del Benguela che arriva dall’Antartico e rinfresca la temperatura stabilizzandola sui 17° anche nei mesi più caldi.

Di là delle pianure che giungono alla costa atlantica battuta dai venti, a sud del fiume Orange, c’è l’area desertica del Kalahari, mentre a nord si circoscrive una stretta fascia di terra chiamata Dito di Caprivi, usata dai tedeschi come accesso al fiume Zambesi. Il delta del fiume Okavango, come lo straordinario Parco d’Etosha, sono riverse naturali fra le più riproduttive per il Wildlife.

Seguendo il corso dell’Okavango, fra i più estesi sistemi idrici al mondo (a voler essere precisi, la denominazione è Kavango in Namibia, Okavango in Botswana), attraversando Kangango, Andara, il Mahango Game Reserve e il parco nazionale di Bwabwata, valli fluviali e pianure paludose diventano habitat ricchi di biodiversità per una fauna che non si trova in nessun’altra parte del paese. Fra paludi e savane, si scorgono alberi di baobab e uccelli rari (martin pescatore bianco e nero, glareola cinerea…), ma anche coba e sita unga, coccodrilli, ippopotami, bufali e una singolare specie d’antilope africana, l’ippotrago.

Con i suoi 20.000 kmq, il Parco Nazionale di Etosha ha una prerogativa che lo rende unico al mondo: in qualsiasi altro luogo d’Africa, ci vogliono ore o addirittura giorni per avvistare fauna selvatica, da osservare o fotografare. Qui, sono gli animali ad avvicinarsi; basta fermarsi nei pressi delle tante buche d’acqua, aspettare un po’ mentre leoni, elefanti, antilopi e gazzelle si appresteranno non a due, tre o quattro ma a centinaia!

Ancora: la reintroduzione del rinoceronte bianco ha ottenuto grande successo e si vedono tanti esemplari di questa maestosa specie, braccata e minacciata d’estinzione.  Il parco è, infatti, un donor, ente speciale che cede animali ad altre riserve se hanno bisogno di ripopolamento.

Il Pan Etosha, ai confini del parco, è un immenso deserto piatto e salino. Ogni anno, nella stagione delle piogge si converte in una bassa laguna, oasi perfetta per fenicotteri e pellicani che creano uno straordinario scenario di vita e colori; durante la stagione secca, invece, la sabbia bianca dell’Etosha avvolge ogni cosa, dai prati, agli elefanti. Tutto appare mutato e spettrale.

Ripensando alla “darkness” di Conrad, a quel profondo disagio dell’Occidente verso differenti civiltà ed espressioni culturali, in quell’orrore indubbiamente riferito alle barbarie compiute in nome del “progresso”, tutt’oggi non siamo esenti nel portare avanti tale propensione: i più “perseguitati” dai turisti tra le comunità etniche della Namibia sono gli Himba, diretti discendenti dell’antico ceppo Bantu, che vivono nei villaggi del Kaokoland, a lungo rimasti isolati.

Nel rifiuto d’allinearsi al modus vivendi importato dall’Occidente, gli Himba sono angariati da una sorta di morbosa curiosità, soprattutto nei confronti delle donne. Esse difendono le loro usanze antiche, ostentano la loro nudità, fatta eccezione per un gonnellino in pelle, spalmandosi da capo a piedi una mistura di grasso animale color ocra, che dona una pelle lucente e rossiccia, simbolo di bellezza oltre che libero e disinibito richiamo sessuale.

Itinerario d’Africa

In Botswana: il Delta delle meraviglie, le pianure del Savute e una storia d’amore.

Entriamo in Botswana con il ricordo di una storia d’amore e l’amore cambia tutte le storie, anche quelle ufficiali.

L’incontro avviene a Londra nel 1947 con l’apartheid appena impiantato dal governo sudafricano. Seretse Khama, futuro re dello stato confinante e Ruth Williams, inglese, di razza bianca, impiegata ai Lloyd's, s’innamorano perdutamente, di un amore travolgente e passionale. Ruth e Seretse si sposano in un momento storico in cui un matrimonio interrazziale incontrerà difficoltà che si sarebbero rivelate insormontabili per chiunque. Di contro, “ragion di stato” con i governi inglese e sudafricano sul piede di guerra, rispettive famiglie d’origine, una sorta d’avversione pubblica: “E’ una bianca!”, allo stesso modo in cui si direbbe, “E’ un negro!”; ma l’amore dei due non vacilla, neanche quando Ruth Williams Khama sarà reclusa nel suo Botswana, da sola con un figlio in arrivo e suo marito, esiliato.

La storia, tout court, è stata riportata alla luce da un libro e poi da un film, A United Kingdom, rivelando una battaglia affrontata in nome dell’amore, dell’uguaglianza, dell’indipendenza. Gli straordinari paesaggi del Botswana fanno da sfondo agli eventi realmente accaduti: da Serowe, il più grande villaggio del paese, capitale della tribù Bamangwato, alla vicina Palapye, fino al Deserto del Kalahari, del Makgadikgadi Pan, ai limiti del Sudafrica.

Eppure, molti anni dopo, il Botswana ha saputo affrontare il trauma del post colonialismo (ottenendo l’indipendenza nel 1966 dal protettorato britannico), meglio d’ogni altro paese africano e per svariate ragioni: la scoperta d’ingentissimi giacimenti minerari (diamanti), mutamenti istituzionali verificatosi in tutta l’Africa australe, ma soprattutto per un’omogeneità etnica che ha evitato conflitti interni, tenendo salde stabilità politica e tenuta democratica. In piena autonomia i vari governi hanno investito, continuando ad investire molto, nell'istruzione e la scolarizzazione.

Sebbene, Barolong Seboni, forse il poeta più rappresentativo del Botswana, lo celebra con le parole di In the disquiet air of the Kalahari (Nell’aria inquieta del Kalahari), in realtà è il Delta delle meraviglie ovvero quello dell’Okavango, a tenere banco. Nel territorio del Botswana, privo di sbocchi sul mare (formato da un unico altopiano), la foce ramificata del grande fiume copre una superficie superiore a quella del Belgio; l’Okavango scende dalle alte pianure dell’Angola, incontra la savana sabbiosa del Kalahari e forma un particolare connubio: deserto e delta!

Di recente, dichiarato patrimonio dell’umanità Unesco grazie alla straordinarietà della sua fauna e alla conformazione morfologica (cinque bracci principali con un intreccio di corsi e vene d’acqua, laghi, isole e foreste), a ragione, il Delta è il paradiso naturale più grande e famoso al mondo. Il Moremi Game Reserve, rappresenta un luogo unico sull’intero pianeta, preposto alla tutela per la vita selvaggia degli animali.

Situato a nord est, più grande della Corsica, il vastissimo territorio del Chobe River preserva quattro differenti biosistemi, un eden per gli elefanti nella più alta concentrazione al mondo (60.000 circa) e di grandi dimensioni. C’è abbondanza di bufali, ippopotami, antilopi, si contano circa 440 specie d’uccelli. Nella regione del Linyanti, a sud del fiume Chobe, il grande habitat del Savute e delle sua pianura arida raccoglie il meglio dell’Africa australe: facoceri, ghepardi, gnu, iene, impala, leoni, leopardi, zebre, paradiso per gli appassionati di birdwatching con oltre 460 specie di uccelli, acquatici e migranti. Fra le rocce dolomitiche delle Gubatsa Hills, nate da movimenti d’origine vulcanica in epoca preistorica, si celano antiche pitture rupestri originarie dei Boscimani.

Racconta Marco Gaiotti: “Ho sempre visitato il Botswana durante la stagione secca, ciò che mi ha davvero colpito è il contrasto fra l’abbondanza d’acqua nei grandi fiumi come il Chobe e l’Okavango e la secchezza della terra. Gli stagni che puntellano il delta sono ricchi d’acqua per tutto l’anno, così come il fiume Chobe, che ospita enormi branchi d’elefanti sulle sue isole erbose.  Nel mezzo ci sono le immense pianure del Savuti che alternano brevi stagioni umide a periodi di siccità: piccole pozze d’acqua consentono la presenza di vita, e ricordo con piacere i tantissimi elefanti radunarsi al tramonto per dissetarsi. Una sera, mentre eravamo lì a fotografarne un branco, un impala è sbucato da un cespuglio lanciato a tutta velocità. Il tempo di capire cosa stesse accadendo che, dallo stesso cespuglio vedemmo staccarsi un branco di licaoni all’inseguimento, poi terminatosi con successo a pochi metri da noi. È stata per me la prima e unica volta che ho assistito alla caccia dei licaoni in tanti viaggi in Africa…”.

Lontano dal cuore oscuro di Conrad, il Botswana appare come esempio di modernità e conservazione, di sviluppo eco compatibile e democrazia, a tal punto che il premio Nobel, Nelson Mandela scriveva di quanto “abbiamo molto da imparare da voi”.

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Al confine tra Zambia e Zimbabwe: “Musi oa thunya”, ossia, le Cascate Vittoria.

Aveva già individuato le rapide di Ngonye, l’esploratore scozzese David Livingstone, ma dovette sgranare gli occhi mentre si trovava più a nord, sulla foce dello Zambesi, davanti a un’enorme massa d’acqua che precipitava giù dalle alture, il 17 novembre 1855.

Già note ai Khoisan, ai Tokaleya e ai Ndebele e chiamate in lingua indigena, Makololo Musi oa thunya, Il fumo che tuona, egli pensò bene di dedicare la nuova “scoperta” alla Regina Vittoria, ricorrendo a una designazione molto più “europea”: Victoria Falls, appunto. Al rinvenimento delle cascate, si aggiunse anche una piccola area distaccata che si trova in mezzo al fiume, prima del salto, con le due cateratte divise, oggi, Isola di Livingstone.

I continui arcobaleno forgiati dal vapore acqueo creano uno spettacolo naturale di rara potenza e meraviglia: con un salto di cento metri, il doppio rispetto a quelle del Niagara (nei mesi di piena, lo spruzzo d’acqua misto al fumo è visibile a 50 km di distanza, innalzandosi fino a 1.600 metri), l’enorme massa risuona con un fragore assordante da rendere impossibile la comunicazione verbale, neppure se si urla a squarciagola.

Nell’Ottocento, le magnifiche cascate situate tra Zambia e Zimbabwe, rappresentavano meta ambita solo per pochi arditi esploratori, come il portoghese Serpa Pinto, il ceco Emil Holub (che le mappò in dettaglio nel 1875) e l’artista britannico Thomas Baines che non mancò d’eseguirne i primi dipinti. La sporadicità delle visite si risolse all’inizio del Novecento, quando la zona fu raggiunta da una linea ferroviaria, tuttora funzionante.

 

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“Il Kilimanjaro si eleva… come l'Olimpo sopra il Serengeti”. In Tanzania!

 “Penso che nulla rappresenti meglio l’idea di Africa quanto il Serengeti. I miei ricordi più belli sono attinenti alla stagione umida, quando i temporali attraversano la pianura scaricando immense quantità d’acqua. Di questi momenti ricordo in particolare l’odore della pioggia e le immense mandrie di gnu e zebre giungere dal Masai Mara per inseguire i pascoli migliori, in una continua migrazione per sopravvivere”.


Marco Gaiotti

“Pianura sconfinata” ecco l’etimo del Serengeti nella lingua delle popolazioni Masai. A nord della Tanzania, tra il lago Vittoria e il confine con il Kenya, limitrofo al Masai Mara e alla riserva naturale di Ngorongoro, 14.763 km² in tutto, è la maggiore delle attrazioni turistiche del "Northern Safari Circuit", un sistema di ben quattro aree naturali protette, fra le più ammalianti dell’Africa orientale.

Terra antichissima dei Masai sotto l’imponente Kilimanjaro, di ritrovamenti paleontologici di straordinaria importanza (come il sito di Olduvai, con i resti dell'Australopithecus boisei, ominide risalente a circa 1,5 milioni di anni fa), nonché sede dei primi tentativi all’approccio moderno per la conservazione ambientale.

Fu il naturalista tedesco, Bernhard Grzimek e suo figlio Michael in un famosissimo pamphlet Il Serengeti non può morire   (Serengeti darf nicht sterben),  da cui fu tratto un documentario omonimo, vincitore del premio Oscar nel 1959, ad avvalorare le basi sulla tutela del patrimonio faunistico africano, porre all’attenzione del mondo la difesa degli habitat e del Wildlife. La storia, come molte altre ambientate in Africa, non risparmia sviluppi drammatici: nello stesso anno, Michael, da sempre suo stretto collaboratore nelle attività di ricerca, periva, vittima di un incidente al piccolo aereo con cui eseguiva i conteggi della fauna, entrato in collisione con un grosso rapace.

Oggi, le parole di Grzimech risuonano profetiche: “Nei prossimi decenni, nei prossimi secoli, gli uomini non andranno più a visitare le meraviglie della tecnica, ma dalle città aride migreranno con nostalgia verso gli ultimi avamposti in cui vivono pacificamente le creature di Dio. I Paesi che avranno salvato questi luoghi saranno benedetti e invidiati dagli altri, diventeranno la meta per fiumi di turisti. La natura e i suoi liberi abitanti non sono come i palazzi distrutti dalla guerra: questi si possono ricostruire, ma se la natura sarà annientata, nessuno potrà farla rivivere”.

La Grande Migrazione del Serengeti è fra gli eventi più straordinari e drammatici del pianeta: in nessun altro luogo è possibile assistere a una marcia di sopravvivenza per circa un milione e mezzo d’ungulati; molti andranno incontro alla morte durante la caccia serrata dei predatori. Nel parco nazionale si trovano tutti i cosiddetti “big five”: elefante, leone, leopardo, rinoceronte nero e bufalo, con la più alta concentrazione dei grandi mammiferi e circa 2500 leoni.

Masse convulse di gnu e zebre si spostano liberamente dal Serengeti al Masai Mara, in una transumanza di grande effetto “scenografico”. Dalle colline, a nord verso sud, tra ottobre e novembre dopo le piogge estive, da aprile a giugno verso ovest e nord: una scena di tale pathos che solo l’Africa può offrire. L’istinto migratorio è indomito, non vi è nulla che possa fermare questi animali, né siccità, né gole o fiumi dove imperversano i coccodrilli.

A sud est, intorno al cratere del Ngorongoro, c’è la riserva naturale con la più grande caldera al mondo segnata da quattro tragitti, tra la corona e l’interno del cratere, da fare in meno di un’ora con fuoristrada: tutta la zona è amministrata dalla Ngorongoro Conservation Area Authority, un organismo indipendente che prevede, tra l’altro, la libera circolazione delle popolazioni Masai, che possono vivere e spostarsi senza impedimenti, ciò che invece, non avviene in altre aree tutelate.

“Una sola cosa allora volevo: tornare in Africa. Non l’avevo ancora lasciata, ma ogni volta che mi svegliavo, di notte, tendevo l’orecchio, pervaso di nostalgia”.

Ernest Hemingway ma non solo, anche Peter Mattheissen, altro scrittore, Hugo von Lawick e Alan Root, registi cinematografici. Tutti, o quasi, sono stati ispirati da quel meraviglioso scenario del Serengeti e della Tanzania!

E poi finire nel giardino dell’Eden, in Kenya!

Nel tentativo, non ancora pienamente riuscito, di separare l’Asia e il Corno d’Africa dal resto del continente, il fenomeno subduzionale conosciuto come deriva dei continenti, iniziato cinquanta milioni d’anni fa, ha creato un gigantesco corridoio per oltre 5000 chilometri che passa dalla Siria, attraverso il Mar Rosso, fino al Mozambico. L’incrinatura sotto la superficie terrestre è la Rift Valley che taglia il Kenya in direzione nord-sud.

L’intera regione è costellata da grandi laghi: Baringo, Bogoria, Elmenteita, Nakuru, Naivasha, Magadi, Turkana, da decine di vulcani e caldere che spuntano a perdita d’occhio; qui, acqua e fuoco hanno plasmato un ecosistema unico.

Alcalino, poco profondo, il Nakuru Lake, ”polvere” o “luogo polveroso” in lingua Masai, è il santuario degli uccelli acquatici: fenicotteri, pellicani, ibis sacri e Hadada, garzette, chiurli, spatole; è anche il luogo privilegiato per il rinoceronte bianco, la giraffa di Rothschild, antilopi d’acqua, gazzelle, facoceri, eland, babbuini, sciacalli, dik dik, impala, bufali e leopardi. Non manca un clan di leoni, che si vedono generalmente tranquilli e paciosi, distesi a godersi il sole se non è momento di caccia o d’accoppiamento. Non manca neanche una nutrita famiglia d’ippopotami che domina la parte nord orientale del lago. Non manca un raro pipistrello: l’hipposideros megalotis, una piccolissima specie color arancio-paglierino con orecchie lunghe. Mancano, però gli elefanti, che invece sono numerosi allo Tsavo.

Sulla cresta intorno al lago, tre località degne di nota: Lion Hill, interamente ricoperta da una magnifica foresta di Euphorbia (il cosiddetto “albero candela”), che infonde al paesaggio sembianze primordiali. Baboon Cliff, un’imponente scarpata a 2000 metri sul livello del mare, luogo preferito per i fotografi grazie al suo colpo d’occhio sulle rive ornate dal rosa intenso dei fenicotteri (un vero spettacolo è vederli alzarsi in volo all’unisono e il cielo, improvvisamente cambia colore), mentre, Out of Africa preserva l’intero territorio con le sue colline.

C’è da premettere una circostanza non irrilevante: negli ultimi anni il lago Nakuru sembra aver perso il suo emblema, i fenicotteri. Perché? Dove sono finiti più di un milione di queste allampanate creature rosa? Si sono spostate più a nord, sul lago Bogoria, lasciando come avamposto poche centinaia d’esemplari: ciò è accaduto per l’innalzamento circa il livello dell’acqua di oltre due metri, riducendone salinità e alghe, quest’ultime alimento principale dei fenicotteri; diversamente, è aumentata la presenza di pellicani e uccelli migratori. Certo è che l’aumento dell’acqua è dovuto alla portata dei fiumi stagionali provenienti dal complesso di Mau, ma è anche vero che le alterazioni per dimensione e profondità sono determinate dall’eccessiva antropizzazione che si è verificata negli ultimi decenni. Infatti, la città di Nakuru, capoluogo della Rift Valley, adiacente al lago, subisce ogni anno un incremento di popolazione con gravi conseguenze sull’impatto al delicato ecosistema. Alla sparizione dei fenicotteri sul lago Nakuru, contribuiscono la variabilità del clima, l’inquinamento dovuto ai rifiuti industriali, domestici, agli infestanti chimici usati per l’agricoltura. Alcuni anni fa, un’intossicazione delle alghe presenti nel lago, causò una moria impressionante per moltissimi di loro.

Il Masai Mara Game Reserve, nella contea di Narok, è in effetti, un continuum della pianura nel Serengeti, in Tanzania. Frequentato da migliaia di turisti l’anno, paradossalmente, la zona più ricca di varietà faunistiche è quella meno battuta cioè la parte concentrata sul bordo occidentale, ricca di paludi e fiumi, mentre la zona orientale, più frequentata, dista più di duecento chilometri da Nairobi. L’intera grande area è attraversata dalla Rift Valley, l’habitat davvero impressionante, è quello della savana punteggiata dalle acacie, la cui icona primaria resta l’immagine del leone, che ancora e fortunatamente imperversa a grandi branchi.

“Nonostante avessi già una lunga esperienza di parchi africani, quando visitai la prima volta il Masai Mara, l’impatto fu davvero sorprendente, soprattutto per la zona ai confini settentrionali della riserva. Anche nella stagione secca, si ha l’impressione di essere improvvisamente finiti all’interno di un campo da golf, invaso chissà come da mandrie di animali selvaggi. 

Due cose mi colpirono particolarmente: i prati verdi di erba bassissima, brucata costantemente dagli erbivori stanziali anche quando le grandi mandrie in migrazione sono lontane e le colline dai profili dolci, allo stesso tempo scoscesi, che contrastano con le infinite pianure circostanti. Per giungere al Masai Mara da Nairobi, dopo aver percorso il pendio della Rift Valley, si attraversa per ore una zona arida e colline lussureggianti ti accolgono all’ingresso della riserva: la scena appare come un giardino dell’Eden circondato dal deserto”.

Marco Gaiotti.

Diario: Itinerario d’Africa nella geografia
di Liliana Adamo e Fotografie di Marco Gaiotti

Liliana Adamo e Fotografie di Marco Gaiotti, cui va un grazie particolare per l’ispirazione e la cooperazione.

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