Maasai. I guardiani della savana
di Liliana Adamo

L’antica letteratura orale, il connubio con la natura selvaggia, il primitivismo come oggetto d’attrazione: fra Kenya e Tanzania, una dissertazione sui Maasai
Naiteru-kop e l’origine della morte
All’inizio non c’era morte; poi, come sorta dal nulla, la morte ha fatto la sua comparsa e questa è la sua storia. Leeyio fu il primo uomo che Naiteru-kop portò con sé sulla Terra istruendolo su una regola basilare.
Quando un uomo muore e ti sbarazzi del cadavere ricordati di pronunciare quest’invocazione: “L’uomo muore e di nuovo torna, la Luna muore e resta lontano“. Trascorsero molti mesi e qualcuno morì. Leelyio fu convocato per disporre il corpo di un giovane, figlio di un vicino della tribù alla quale apparteneva. Il dolore era grande e Leelyio, preso dal disagio, incappò in un passo falso pronunciando la formula in modo errato: “Luna muore e di nuovo torna, l’uomo muore e resta lontano”. Dopo queste parole, nessuno sopravvisse alla morte. Trascorse altro tempo, dopo una breve malattia anche il figlio di Leeyio mancò alla gioia dei suoi cari. Affranto, l’eletto di Naiteru-kop issò il piccolo al cielo, pronunciando, questa volta, la formula giusta: “L’uomo muore e di nuovo torna, la Luna muore e resta lontano“.
Troppo tardi. Naiteru-kop non perdonò mai l’errore iniziale. Egli fu perentorio: “La morte è nata il giorno in cui il figlio del tuo vicino non n’è stato sottratto…”. Così la morte apparve sulla Terra e fino a oggi vale una sola formula, quando un uomo muore non ritorna, ma quando la Luna muore, ella è destinata a riapparire.
L’episodio è tratto dalla letteratura orale Maa, da qui Maasai gruppo etnico che vive tra i bush e gli altopiani di Kenya e Tanzania. Naiteru-kop vuol dire testualmente, l’iniziatore della Terra. I Maasai non si riferiscono mai a una persona morta come trapassata, ma, particolarmente nel caso di giovani, essi indicano il defunto come mancante (etalaki). Naiteru-kop può essere maschio, può essere femmina, o entrambi e rappresenta la Divinità della Terra, presumibilmente fra l’umano e il trascendente. Secondo la tradizione, Naiteru-kop fu convocato da Engai (Dio), sul monte Oldonyo Le Ngai. Inizialmente maschio, gli fu dato una moglie, del bestiame, gli fu ordinato di generare una tribù d’ispirazione divina.
Per il popolo Maasai, Dio non ha sesso, né maschio, né femmina, oppure li contiene entrambi. Questo rappresentò un rebus per i primi missionari, i quali non essendo in grado di venirne a capo, liquidarono l’iniziatore della Terra, deificazione pagana, come personificazione della Dea Madre Terra.
Sarebbe opportuno interrogare direttamente un Maasai per risolvere la controversia, dal momento che anche noi restiamo assolutamente sconcertati. Il Dio Maasai sussiste tutt’oggi in un’entità parecchio eclettica e se negli ultimi tempi alcune tribù si sono convertite al Cristianesimo, perdura il retaggio dell’Africa primitivista, legato ai misteri della natura e agli spiriti guardiani della savana.
Una complessa coesistenza
Nei Maasai è vivo il connubio tra animali selvaggi e simbolismo. Fin da piccoli crescono con storie leggendarie, aforismi e aneddoti in cui quel wildlife che tanto ci sorprende durante i safari, resta attore principale. Con caratteristiche corporee degli animali, esso parla e si comporta come gli esseri umani: sono fiabe divertenti e forniscono basilari lezioni di vita. L’insegnamento di storia, cultura e interazione sociale lascia spazio a memorie ancestrali, commentando gli eventi all’interno della comunità, per riflettere sulle proprie azioni e posizioni, oppure sulle altrui attività. Agli anziani è dato l’onere di ridicolizzare e perfino disprezzare, qualsiasi condotta ritenuta sconveniente, ma senza indicare alcun individuo in modo palese.
In una struttura sociale regolata da un sistema fondato sull’età dei suoi componenti, resta profonda e indissolubile la connessione all’universo naturale. Un sistema d’impostazione nato dall’interazione fra animali selvaggi e genere umano; un leopardo o un pitone sono messaggeri di Dio, esattamente come i primi missionari avevano liquidato la questione, personificazione della Dea Madre Terra.
Ogni clan (circa dodici, Keekonyokie, Damat, Purko, Wuasinkishu, Siria, Laitayiok, Loitai, Kisonko, Matapato, Dalalekutuk, Loodokolani e Kaputiei), ha un legame totemico con un attore del wildlife, simbolo di peculiari qualità. Ad esempio c’è il clan dell’elefante (ilmoleliano) i cui componenti sono buoni oratori con doti di leadership; chi appartiene al clan della iena (iltarlosero), può essere annoverato fra gli avidi; nel gruppo del bufalo, invece, è la volta degli egoisti e incostanti.
I Maasai non amano parlare della complessa coesistenza con gli animali selvatici per svariate ragioni: spesso associamo l’idea (errata) e il sospetto (infondato), che l’immagine tanto cara al mondo occidentale del guerriero Maasai armato di frecce, lancia e scudo, sia colpevole nel ridurre di numero la fauna selvatica in Africa. E’ vero il contrario. L’emblema del bracconiere nero che minaccia la natura e stermina gli animali è stata creata ad hoc in epoca coloniale e resiste tuttora. L’unica vera insidia deriva esclusivamente dalla densità e dall’uso del suolo per agricoltura e pastorizia, i soli mezzi di sussistenza già dal XVIII secolo, mentre la caccia era praticata solo in momenti di bisogno o per rituali d’iniziazione (Moran).
Recenti studi hanno dimostrato quanto sia fondamentale la presenza di popoli autoctoni per il corretto mantenimento del suolo, degli ecosistemi, del wildlife. Nel Maasai Mara la fauna selvatica è più numerosa che altrove, perfino di altre aree protette, come le Riserve Nazionali. In primis, le fattorie con bestiame e animali domestici, sono fatte in modo da non entrare in conflitto con le specie selvatiche. Una delle pratiche Maasai consiste nel bruciare parti secche della savana e delle praterie (incendi assolutamente controllati). Ciò favorisce la crescita d’erba corta e nutrizionale che alimenta ungulati e altri animali, sostenendo l’equilibrio necessario alla catena alimentare dei grandi predatori: leoni, ghepardi e leopardi.
L’attenzione ai territori di pertinenza favorisce, inoltre, una concentrazione del bioma, essenziale per flora subtropicale e tropicale, indice di biodiversità. Incendi antropogeni sono determinanti anche per la sopravvivenza d’importanti aree protette; in alcuni parchi faunistici africani incendi periodici sono esplicitamente previsti dai programmi di conservazione ambientale. Ciò suggerisce che, nonostante sia aumentata la popolazione Maasai intorno al Mara, cresce di numero e di specie anche il wildlife dell’ultimo millennio, senza peraltro alcuna competizione.
Primitivismo e turismo
Nelle zone di Arusha, intorno al cratere ‘Ngorongoro, nel Serengeti, Tarangire e Masai Mara, ai piedi del Kilimangiaro, tra paesaggi di una bellezza surreale, è possibile visitare case ellittiche di sterco e fango (enkang) in cui vivono, piccole scuole dove i bambini imparano a leggere e scrivere, luoghi sacri dove avvengono riti e cerimonie. C’è da sottolineare come negli ultimi anni i redditi locali siano notevolmente migliorati grazie alla presenza turistica, cui le tribù contribuiscono in modo considerevole. Tuttavia i Maasai non accettano l’immaginario che l’Occidente proietta su di loro. Essi si presentano come guardiani della savana e del wildlife contraddicendo nei fatti, le idee di primitivismo assoluto storicamente attribuite. Additati come selvaggi dai colonizzatori inglesi, discriminati dagli Stati di Kenya e Tanzania per l’identità etnica d’origine nilotica, il modo di vivere e le tradizioni, tutto ciò ha prodotto oppressione, trasferimenti forzati, diniego alle cure mediche e alle infrastrutture. Eppure sono stati i Maasai a salvaguardare il tesoro faunistico dell’Africa orientale e oggi possono definirsi a tutti gli effetti, autentici partners nella conservazione, operando con i rangers contro l’odiosa pratica del bracconaggio. Allo stesso modo, non si può sfuggire completamente all’immagine tribale, oggetto estremamente attraente per l’industria turistica, grazie alla quale si è raggiunto uno standard di vita più elevato rispetto al passato. Per i Maasai, dunque, si ritiene necessario mettere in scena una certa dose di primitivismo.
L’ Adamu, una danza Maasai
Una fila compatta di guerrieri Maasai si raduna e in lontananza grida concitate richiamano i presenti alla cerimonia. Fin a quando uomini neri, alti, esili, bellissimi, fasciati dagli shuka, lunghi drappi dalle tinte vivaci su cui predomina il rosso, iniziano a battere i piedi sul terreno, a modulare suoni gutturali salmodiando. Il rosso è un colore simbolo, grazie al quale si tengono lontani i leoni, ma eccoli che avanzano all’unisono, come se insieme fossero uno; non ci sono tamburi, solo voci e invocazioni tribali a sostituire strumenti e musica.
Con lance e scudi si avvicinano, mentre l’intensità dei movimenti aumenta convergendo in un ritmo costante. Allineate di fronte ai guerrieri, anche le giovani donne iniziano il loro canto. Gli abiti sono tradizionali in un tripudio di colori e monili. Bracciali, grandi gorgiere piatte ornate di perline e disegni, indicano il clan di appartenenza e lo status sociale. Gli uomini indossano cavigliere, polsiere, cinture e collane, ma l’insieme di queste decorazioni sul corpo e sugli abiti, è un messaggio criptato, indirizzato soprattutto agli ospiti, esprime pace, concordia, disponibilità.
Alcuni Maasai al centro del cerchio avviano i primi salti, sempre più in alto. Uno alla volta, a turno, passo in avanti, un salto ancora più in alto. L’energia scorre, le voci crescono di volume e tono, le donne con i loro monili, muovono il collo in avanti e indietro, intonando canti sincopati: è l’essenza di un rituale, l’Adamu, in cui si inneggia a Dio per unirsi a noi, ma non solo. Questa danza incredibile e magica si converte in festa per accogliere il passaggio d’età, un matrimonio o una circoncisione, la Pasqua e il Natale o soltanto per trascorrere, in compagnia d’amici e ospiti venuti da lontano, le lunghe notti nella savana.
