Parco nazionale Kruger: dove la natura è ancora libera

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di Roberto Cazzolla Gatti

Nonostante le tristi vicende umane, c’è ancora posto per la vita selvaggia in Sudafrica. Purtroppo a volte anche qui l’appropriazione dei territori e dei beni, messa in atto durante la colonizzazione, ha relegato in ghetti non solo interi gruppi etnici umani, ma anche le specie selvatiche del paese. Ma c’è un luogo straordinario dove è ancora possibile una coesistenza e dove la natura è ancora incondizionata padrona e l’uomo ospite cauto


 

La lunga e triste storia di schiavitù e lotte contro l’apartheid in Sudafrica ha interessato e scosso l’opinione pubblica per molti decenni. Solo nel 1992, con l’elezione del presidente de Klerk, vengono abolite le leggi antirazziali. Ci son voluti 27 anni di carcere e isolamento per Nelson Mandela prima di vedere il suo sogno di libertà realizzarsi: abolire quell’apartheid imposto dai coloni di origine olandese per facilitare un “rapporto di buon vicinato tra bianchi e neri”.

Sono passati altri 26 anni da quel traguardo sociale e morale. Per molto tempo, con la scusa di risolvere i rapporti di convivenza fra le varie etnie del paese, sono state infangate e nascoste innumerevoli espropriazioni indebite ai danni delle popolazioni indigene. Una storia che, in tempi moderni, si ripete in altre parti dell’Africa centrale, del Sudamerica e del Sudest Asiatico.

Oggi il Sudafrica è un paese dove differenti etnie convivono piuttosto pacificamente, sebbene le distinzioni tra classi sociali sembrano ancora, almeno in parte, influenzate da un antico passato di discriminazioni. Eppure, lo stato dei bafana bafana, come i sudafricani amano definire i calciatori della propria squadra nazionale, ha compiuto passi da gigante rispetto alla maggioranza degli altri stati del continente. La maggior parte delle città sono moderne e tecnologiche, l’agricoltura sviluppata e di qualità, le università all’avanguardia e le leggi sui diritti civili e contro l’omofobia ormai radicate nella cultura locale. 

C’è però un aspetto delle vicende di conquista, sfruttamento e ribellione che hanno coinvolto i popoli del Sudafrica piuttosto trascurato dagli storici e dai sociologi: l’appropriazione dei territori e dei beni, messa in atto durante la colonizzazione, ha relegato in ghetti non solo interi gruppi etnici umani, ma anche le specie selvatiche del paese. Come sempre avviene, lo sviluppo incontrollato e il depauperamento della diversità umana hanno portato a una riduzione anche della diversità biologica. L’enorme sviluppo agricolo e industriale, le attività estrattive e le immense miniere di metalli, carbone e diamanti sparsi per tutto lo stato hanno interrotto la continuità di savane e macchie arbustive e la possibilità per la fauna selvatica di muoversi indisturbata, cosa che ancora avviene in altre del continente come nei pressi del delta dell’Okavango in Botswana o nelle pianure del Serengeti in Tanzania.

I safari di caccia, realizzati per anni dai ricchi coloni, hanno sterminato intere popolazioni di grandi mammiferi. Le condizioni di povertà dovute alle differenze tra ceti sociali hanno costretto migliaia di persone a sovrasfruttare le risorse naturali, forzandoli a cacciare la selvaggina per mangiare o tagliare gli alberi per avere legname da ardere.

Un parco grande quanto il Belgio

Oggi, molta della biodiversità sudafricana è confinata in riserve private che assomigliano più a zoo per pigri turisti sovrappeso, in grado di ammirare la natura soltanto dai finestrini dei propri costosi fuoristrada, che a vere aree naturalistiche protette. Nonostante tutto questo sfruttamento di un territorio ricco e, pertanto, segnato da numerose sventure, esiste – resiste – un parco, esteso quanto il Belgio, che si estende immenso e selvaggio per 350 km da nord a sud al confine tra la provincia sudafricana di Mpumalanga e quella di Limpopo in Mozambico.

È un luogo dove ancora la natura è incondizionata padrona e l’uomo ospite cauto, ammaliato dalla sua forza e intimorito dalla sua bellezza. Non sono i grandi mammiferi a essere rinchiusi nei recinti, ma gli esseri umani nei loro veicoli su quattro ruote e nei lodge con le reti elettrificate.

La via preferita da molti turisti per visitare il parco è la comoda autostrada che congiunge Johannesburg o Pretoria ai suo ingressi meridionali. E non potrebbe esserci percorso dell’anima più intenso per raggiungere il Kruger. Il contrasto tra i cancelli super-vigilati delle lussuose ville di città e, agli antipodi, gli altrettanto iper-protetti campeggi presenti all’interno del parco ammonisce la nostra specie sul vero senso di libertà e su come questa abbia valore assoluto, a qualunque livello diversità, e sia relativo solo al punto di vista che siamo disposti ad adottare.

Il parco nazionale Kruger è un avamposto di selvaticità. Un museo a cielo aperto, dove non c’è nulla d’imbalsamato. La natura è viva come non mai e si disinteressa alle vicende dell’uomo. Visitare il parco significa ritornare da dove siamo partiti più di 200.000 anni fa. Da quella culla dell’umanità, grotta delle origini, situata a pochi chilometri dalla capitale sudafricana, attraversando sterminate savane puntellate di acacie e circondati delle più svariate forme di vita.

L’intero parco può essere visitato solo in auto, perché leoni ed elefanti non hanno alcun timore reverenziale per l’ultimo arrivato, e solamente dedicandogli qualche giorno, perché le distanze sono enormi e gli incontri con luoghi e creature da sogno imprevedibili. L’area protetta, istituita a cavallo tra ‘800 e ‘900, deve il suo nome al politico sudafricano Paul Kruger, leader della resistenza boera (ovvero della popolazione di “contadini” discendente dai coloni olandesi del XVII secolo) contro il dominio inglese. Per molti anni dalla sua istituzione, l’area protetta è stata rifugio di latitanti provenienti dalle zone limitrofe e terreno fertile per i bracconieri che, spesso indisturbati, facevano strage dei cosiddetti “grandi 5” (elefanti, leoni, leopardi, bufali e rinoceronti) per il mercato illegale dei trofei di caccia, delle pellicce e dell’avorio. Soltanto agli inizi degli anni ’90 il parco fu modernizzato, con l’eliminazione delle barriere che lo perimetravano, favorendo il libero movimento degli animali nei parchi vicini, e l’intensificazione dei controlli antibracconaggio agli ingressi e al suo interno.

Si stima che l’intera area protetta ospiti al suo interno circa 2.000 specie di piante e, oltre ai grandi predatori ed erbivori della savana, 500 specie di uccelli, 120 di rettili, 40 di anfibi e 50 di pesci. Differenti ecosistemi si estendono da nord a sud, con gli ambienti più ricchi di mammiferi concentrati nella parte meridionale, dove è dominante la fitta macchia formata da cespugli di acacia e sicomori, e nel centro, dove sono diffuse vaste savane.

Dall’alba all’imbrunire differenti gruppi di specie si succedono come se entrassero in scena seguendo un perfetto canovaccio e recitano, come “animali da palcoscenico” appunto, il loro inno alla vita.

Al tramonto

Le scene di caccia a cui possono assistere gli osservatori, i turisti, i fotografi e gli scienziati, che affollano un parco così vasto da non essere mai troppo pieno di presenze umane, non sono infrequenti.

I grandi predatori si muovono al tramonto nelle vaste savane che ricoprono il territorio compreso tra gli ingressi meridionali di Malelane, Skukuza, Lower Sabie e Crocodile Bridge. La rete di strade polverose che si estende per centinaia di chilometri offre l’opportunità di straordinari incontri. Al tramonto, leopardi e ghepardi escono a caccia, muovendosi furtivi tra i cespugli. I primi preferiscono la fitta vegetazione dove potersi acquattare per catturare silenziosamente piccole e medie prede, solitamente in solitudine; mentre i secondi – considerati i più veloci predatori terrestri, in grado di raggiungere anche i 120 chilometri orari – si muovono da soli o in piccoli gruppi, con la loro tipica andatura d’agguato, prima di lanciarsi in portentosi inseguimenti di zebre e impala. Quest’ultimi, insieme a kudù, cobi, nyala e moltissime altre antilopi, mantengono l’equilibrio dinamico degli ecosistemi in cui prosperano, gestendo l’espansione della vegetazione grazie al loro incessante brucare e, allo stesso tempo, finendo per diventare preda dei felini che vivono nel parco.

I leoni, ben più grandi e possenti dei loro cugini a macchie o dei minuti caracal e serval o delle schive genette e civette che si lasciano avvistare raramente nel parco, dopo aver trascorso distesi e sornioni le ore più calde della giornata, preferiscono prede dalla maggior mole, come bufali e gnu, sebbene questi non si lascino certo cacciare con facilità e l’esito degli attacchi è nettamente in favore delle prede. Capita spesso, infatti, di osservare il mesto ritirarsi del re della savana dinanzi alla strenua difesa di muscolosi bufali o di determinati gnu. Quando però la battuta di caccia notturna ha successo, non sono i soli ad approfittare del banchetto. Le iene striate, numerose nel parco, cercano l’occasione per soffiare un po’ di ciò che resta alla mensa dei felini. Tra di esse si affacciano sciacalli e rari licaoni, nella penombra delle notti stellate del Kruger, e gli avvoltoi, quando il sole cocente del giorno strema anche i più feroci dei predatori.

Gli ippopotami fanno il bagno e si immergono lasciando intravedere solo le narici, abbondantissimi nella parte centrale del parco a cui si accede dall’ingresso di Phalaborwa. Tra i corsi d’acqua coccodrilli, marabù e becchi a sella africani (grandi cicogne dal becco rosso e nero) approfittano dell’abbondanza di pesci che si concentrano nelle acque basse durante i frequenti periodi di siccità.

Le giraffe, in piccoli gruppi, si alimentano sulle alte fronde, mentre sotto di loro, brucano spesso decine di zebre e impala, rassicurate dalle alte “torri d’avvistamento”. Gli elefanti, solitamente in branchi, s’incontrano in ogni angolo del parco. Intenti a rinfrescarsi in una pozza o ad alimentarsi tra la vegetazione, mamme con cuccioli, vecchie matriarche e possenti maschi vivono piuttosto indisturbati e protetti all’interno del Kruger. Ma a minacciare i pachidermi, così come i possenti e rari rinoceronti bianchi e neri che vivono nell’area protetta, non sono gli affascinati osservatori dei loro straordinari comportamenti. Il pericolo viene, come al solito, dal commercio e da chi ritiene che la vita, di forme infinite e bellissime come amava definirle Charles Darwin, possa essere mercanteggiata come rimedio afrodisiaco o come simbolo di virilità per le follie e le megalomanie umane. Per soddisfare un mercato globale che sottrae alla natura ciò che ha di più bello. In questo caso, per destinare alcune sue creature al mercato dell’avorio, che nonostante i bandi continua a causare carneficine e a trovare la recente (e preoccupante) apertura anche di qualche conservazionista. Solo lo scorso anno, si stima che siano stati uccisi 504 rinoceronti e 67 elefanti all’interno dei confini del parco, dove i controlli sono effettivamente scarsi e approssimativi. Certo, siamo ben al di sotto degli allarmanti numeri del passato, ma non si può certo stare tranquilli.

È a nord del parco che si verificano più episodi di caccia illegale, probabilmente perché quest’area, al confine col Mozambico e lo Zimbabwe, è quella dalla quale è più facile entrare e uscire dalla zona protetta senza troppi controlli. Eppure qui nulla lascia credere che si possa sparare ad animali che godono dell’aria fresca della sera radunandosi intorno alle pozze rischiarate dalla luna. Il paesaggio settentrionale è straordinario, punteggiato di baobab e ammorbidito dai dolci declivi delle colline che, di tanto in tanto, lasciano il posto a ripide pareti dalle quali è possibile ammirare le profonde insenature create dal passaggio dei corsi d’acqua, paradiso di aironi e martin pescatori.

D’altronde, così come il contrasto tra i recinti urbani sudafricani e quelli dei lussuosi lodge nel parco ispira profonde riflessioni, la brutalità del bracconaggio in una delle più belle aree di conservazione al mondo e il profondo senso di pace delle miriadi di esseri che la popolano, che nascono, vivono e muoiono seguendo un’atavica armonia oramai dimenticata nelle nostre vite cementificate, deve riportarci alla mente ciò che Nelson Mandela amava ripetere al suo popolo: “Essere liberi non significa solo sbarazzarsi delle proprie catene, ma vivere in un modo che rispetta e valorizza la libertà degli altri”. Il Kruger è un luogo dove gli uomini e la natura possono riscoprire il senso di queste parole e finalmente ridare libertà non solo all’uomo, ma anche agli altri abitanti di questo pianeta.