Cara Italia
Testo: Antonio Di Giacomo* Foto: Michele Vittori

La fotografia come documento e testimonianza di un pezzo di Paese che rischia di scomparire. Ricordare per rivendicare il diritto a rinascere, consapevoli che in gioco non c’è solo il futuro dell’Appennino ma quello di tutta l’Italia interna
Quello che resta, alla fine, è il primato del paesaggio. Dei borghi, dei paesi e del loro arcipelago di frazioni, che contrappuntavano l’Appennino c’è rimasto poco e nulla. Dopo i terremoti del 2016/2017 è la geografia antropica del Centro Italia che rischia di non essere più la stessa. Già perché tra gli effetti di questa sequenza sismica, a ormai quasi tre anni dalla prima scossa del 24 agosto 2016, non si può non cogliere come il terremoto triturando paesi quasi ovunque, abbia prodotto un effetto di massificazione del paesaggio antropizzato. Perché le macerie, non ancora del tutto rimosse, sono un po’ come un mantello di neve che cancella le differenze e le identità di luoghi che rischiano di non rinascere più. A cosa può servire, allora, la fotografia? A documentare, testimoniare e ricordare, se non altro, che c’è un pezzo del nostro Paese che forse vedremo scomparire dalle cartine geografiche, mentre le decine di migliaia di cittadini che popolavano i 140 paesi colpiti dal cosiddetto terremoto del Centro Italia vivono ostaggio di quei non luoghi che sono gli insediamenti temporanei delle Sae (le casette qui ribattezzate Soluzioni abitative d’emergenza) se non ancora in esilio negli hotel sulla costa adriatica, costretti a una vista mare obbligatoria.
Diritto a rinascere
Può servire, allora, la fotografia a rivendicare l’inalienabile diritto a rinascere di ciascuno dei paesi in cui queste persone vivevano. Anche a fronte di una ricostruzione della quale finora non si è vista alcuna traccia. È da questi presupposti, dalla convinzione che la fotografia potesse essere messa al servizio dell’Italia fragile, che nella primavera del 2016 nasceva a L’Aquila il progetto Lo stato delle cose. Geografie e storie del doposisma. Lo sforzo collettivo di trentacinque fotografi che a L’Aquila si diedero appuntamento fra maggio e giugno fu quello di offrire un contributo per riaccendere i riflettori sui destini dei territori e delle comunità a sette anni dal terremoto del 6 aprile 2009, quando ormai L’Aquila non faceva più notizia. Tre mesi dopo, la prima devastante scossa di terremoto del 24 agosto 2016, rimise in gioco tutto e così, fino all’ultima scossa del 18 gennaio 2017, mise in evidenza con una forza distruttiva inaudita la vulnerabilità dimenticata dell’Appennino, il cuore in fondo dell’Italia fragile. È per questo che, in corso d’opera, lo Stato delle cose è diventato un osservatorio permanente sul doposisma. Per non smettere di raccontare il cuore fragile del Paese e permanente finché, visto il carattere non profit del progetto che ha visto la luce sul web il 21 aprile 2017 sul portale www.lostatodellecose.com, ci saranno sguardi, cuori e intelligenze pronte a mettersi al servizio e dunque dalla parte dell’Italia fragile. Oltre cento i fotografi che ne sono stati finora parte, rendendo possibile la realizzazione della più grande campagna fotografica sul paesaggio italiano realizzata negli ultimi anni, fra questi c’è il fotografo romano Michele Vittori. Ci scrisse nell’estate del 2017, quando avevamo appena promosso una nuova open call per chiamare a raccolta nuove energie per documentare la situazione nel Centro Italia. Ci riguarda era il titolo che si era scelto per questa nuova campagna fotografica, nella convinzione che il futuro dei centri colpiti dalle scosse del 2016/2017 riguardasse l’Italia intera e non solo coloro che del terremoto ne hanno subìto le conseguenze. C’era “qualcosa di personale” nell’attestazione di interesse da parte di Michele Vittori, visto che luoghi come Castelluccio di Norcia ma soprattutto Castelsantangelo sul Nera li conosceva bene. Sì, perché a Vallinfante c’era stata, nell’infanzia e nell’adolescenza di Michele, la casa delle vacanze in montagna insieme con i nonni. Per oltre una settimana, allora, dalle prime luci del giorno fino al tramonto, ha riattraversato quei luoghi, documentando nell’autunno del 2017 lo stato delle cose a Castelsantangelo sul Nera, e nelle sue frazioni, spingendosi fino a Frontignano di Ussita e a Castelluccio di Norcia. Accanto, dunque, al suo meticoloso lavoro di documentazione Michele ha realizzato un progetto dal segno più personale, che ha voluto intitolare No Place. Una narrazione dove a prendere forma è un dialogo in contrapposizione fra un paesaggio di sconfinata bellezza e le poche tracce rimaste, tra macerie e ruspe che ancora non smettono il loro lavoro.
Spopolamento
Al centro di questa narrazione binaria, invece, c’è la posta in gioco per il futuro non solo dell’Appennino ma dell’Italia interna: l’abbandono. “La situazione in cui versano i centri abitati e le frazioni minori dell’area colpita – scriveva alla fine del 2017 Vittori nelle sue note a No Place – si presenta molto preoccupante, piccoli paesi e borghi ormai quasi totalmente spopolati e prossimi a essere demoliti. Sembra che siano senza prospettive certe per una futura ricostruzione. La violenza del sisma oltre ad accelerare lo spopolamento dei territori ha messo a dura prova le già fragili attività economiche legate alla produzione locale e alla ricettività turistica. Col risultato che il terremoto del 2016 ha evidenziato, ancora una volta, il precario equilibrio tra l’uomo e il territorio che abita”. Un anno e mezzo dopo poco è cambiato e, a Castelsantangelo sul Nera per esempio, sembra che il tempo si sia arrestato. Non si è fermato, però, Michele Vittori che in quei luoghi non ha smesso di tornarci per dare seguito al suo No Place e non si è fermato Lo stato delle cose che, attraverso la nuova call Terrae Motus, intitolata così in omaggio alla figura del gallerista e mecenate Lucio Amelio, continua il suo lavoro di documentazione nell’Italia fragile anche nel corso di questo 2019. Nel Centro Italia, in Irpinia, in Sicilia, in Emilia e nuovamente a L’Aquila e nel cratere del terremoto del 6 aprile 2009. Perché dieci anni sono passati e, oltre la retorica ottimistica che vuole in attività nel capoluogo abruzzese “il più grande cantiere d’Europa”, la strada per la ricostruzione resta ancora in salita. Nessuna scuola, infatti, è stata ricostruita a L’Aquila dove bambini e ragazzi seguono tuttora le lezioni in quelli che dovevano essere, in linea teorica, moduli scolastici provvisori. E pure qui, nella città stessa ma soprattutto nelle frazioni dimenticate a se stesse, ci sono luoghi dove le lancette dell’orologio sono rimaste ferme al 6 aprile 2009. È accaduto a Paganica come a Tempera o, ancora, a Onna e Camarda. Ancora più desolante, forse, la situazione in paesi come Fossa, Sant’Eusanio Forconese, Castelnuovo di San Pio delle Camere. Decine e decine di altri luoghi che, a dieci anni dal terremoto, non sono mai rinati e dove, ragionevolmente, l’impressione netta è che la parola ricostruzione non sia stata declinata affatto.
*l’autore è l’ideatore e curatore del progetto Lo stato delle cose. Geografie e storie del doposisma
