La fotografia è innanzitutto un mezzo di comprensione: uno strumento per esplorare il mondo ed uno specchio attraverso il quale comprenderlo
testo e foto di Simone Sbaraglia
Dieci anni fa di questi tempi sarei stato seduto dietro una scrivania in uno studio senza finestre all’interno di un immenso palazzo a vetri a forma di semicerchio. Il palazzo in questione era il prestigioso centro di ricerca dell’IBM di Yorktown, New York, che ospitava, ed ospita, oltre duemila ricercatori provenienti da tutto il mondo.Tra loro, una discreta quantità di premi Nobel. Di fronte a me avrei avuto un monitor in cui si inseguivano numeri e simboli, alle spalle una lavagna piena di formule matematiche. Dieci anni fa non sapevo nulla di fotografia, di animali o di natura. Le mie conoscenze sull’argomento erano desunte da qualche documentario del National Geographic e i leoni e le scimmie erano importanti nella mia vita come un congelatore nella vita di un eschimese.

Oggi invece scrivo queste righe mentre sono ancora in fase di decompressione dopo due settimane nella giungla tra Gabon e Congo ad inseguire scimmie e scacciare, senza successo, zanzare. Le braccia gonfie per le punture ma la mente gonfia di emozioni e ricordi. Sono su un treno che mi porterà a Trieste, dove parlerò all’inaugurazione della mia mostra “Immagini dal Pianeta Terra”, che mi sta dando grandi soddisfazioni in giro per l’Italia. La fotografia ha invaso ormai ogni aspetto della mia vita e quando non sono in viaggio per fotografare sono in studio a lavorare alle foto o a preparare mostre, proiezioni, lezioni e workshop fotografici. Ho 41 anni, ma se mi guardo indietro mi pare di averne almeno il doppio. Ho avuto il privilegio di vivere ogni giorno della mia vita come se fosse un anno. Sono oggi 10 anni da quando ho iniziato la mia seconda vita, e vorrei raccontarvi qualcosa di questi 10 anni facendomi aiutare nel racconto dalle immagini e dalle didascalie che trovate allegate. Nella mia prima vita ero un matematico, con laurea e dottorato all’università di Roma “La Sapienza”, emigrato negli USA in cerca di un posto migliore dove fare ricerca. Il posto migliore l’ho trovato in uno dei centri più prestigiosi al mondo e senza pensarci due volte mi ci sono trasferito nel 2000. Nel 2003 si è verificato l’incidente di percorso, per così dire, che ha cambiato il corso della mia vita. Ero in viaggio di piacere nel sud-ovest degli USA ed ho pensato di prendere la macchina fotografica e scattare qualche foto a quel luogo meraviglioso che è la Wave, formazioni di sabbia solidificata e roccia modellata dai venti e dall’acqua nel corso dei secoli. È stato come scoprire un mondo sommerso dentro di me sotto metri cubi di razionalità: la scoperta delle emozioni della natura e la possibilità di condividerle con la fotografia. È stato come abbattere con un bulldozer le pareti dello studio senza finestre che occupavo in IBM. La macchina fotografica non l’ho più lasciata, ho lasciato invece il mio lavoro e mi sono avviato verso la mia seconda vita. Se mi guardo indietro so che era tutto già scritto in quella prima foto. È come se avessi avuto una bomba inesplosa sepolta da qualche parte dentro di me che all’improvviso è saltata in aria. Un istante dopo la deflagrazione era tutto diverso. Il mio lavoro, cui pure un istante prima dedicavo tante energie, non significava più nulla per me. La fotografia e la natura occupavano ogni mio pensiero. Il resto, fin qui, sono stati passi obbligati.

In questi 10 anni ho imparato che la fotografia è per me innanzitutto un mezzo di comprensione: uno strumento che mi fornisce la scusa per esplorare il mondo ed uno specchio attraverso il quale comprenderlo. Fotografo per comprendere meglio i sentimenti che provo dinanzi a determinati soggetti, paesaggi, animali e per trasferire questi sentimenti all’osservatore. È stato un percorso abbastanza lungo quello che mi ha portato al tipo di fotografia che faccio ora: a stretto contatto con i soggetti, cercando di stabilire con loro un rapporto di fiducia, usando focali molto basse e prendendo alla lettera il precetto di Robert Capa “se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino”. All’inizio della mia carriera di fotografo le mie immagini erano puramente documentative, scattate da lontano e con l’aiuto di potenti teleobiettivi. Finché un giorno un editor illuminato di un’agenzia londinese cui avevo inviato il mio portfolio mi rispose che le mie immagini erano tecnicamente valide ma, essendo una mera documentazione del mondo naturale, avrebbe potuto scattarle chiunque in possesso di una decente attrezzatura e di un minimo di competenza tecnica. Sarò sempre infinitamente grato a questa persona per la rivelazione e per avermi, in un certo senso, liberato: da allora mi sono preoccupato molto meno della fedele rappresentazione della natura e molto più della fedele rappresentazione dei miei sentimenti ed emozioni. Il risultato è uno stile che con il passare del tempo si è andato definendo rendendosi riconoscibile e che mi ha consentito di trovare la mia nicchia comunicativa all’interno del mondo della fotografia. Il mio stile di fotografia oggi si basa fortissimamente sul cercare un rapporto con il soggetto. Odio i lunghi teleobiettivi e cerco di evitarli per quanto possibile. Con il tempo ho scoperto che la mia capacità di coinvolgere l’osservatore dipende fortissimamente dalla capacità di essere molto vicino agli animali e di essere accettato da essi. Naturalmente questo richiede molta fatica e tempi mediamente lunghi prima che gli animali accettino di essere avvicinati ma è l’unico modo per poter creare immagini che mostrino l’intimità tra il fotografo e il soggetto. Quello che voglio ritrarre è l’anima degli animali. Da lontano è difficile vederla.

Con il passare del tempo è cresciuta anche la mia sensibilità nei confronti dell’ambiente e della necessità di proteggerlo. Dieci anni fa, quando scattai la mia prima foto, dissi a me stesso che forse sarei potuto diventare un fotografo di natura. Non è esattamente quello che sono diventato: sono piuttosto un fotografo di specie ed ambienti ad immediato rischio di estinzione. Non è stata una scelta consapevole, è stata una scelta obbligata. Ogni animale che fotografavo scoprivo poi che forse non sarebbe sopravvissuto a lungo dopo la mia foto. A volte ho paura che le mie immagini servano solo come testimonianza di un mondo che è destinato a scomparire, un po’ come la foto sulla lapide che serve a dire: non è più tra noi, ma vogliamo ricordarlo così. In altri momenti di maggiore ottimismo invece spero che possano servire a qualcosa di più: a diffondere la bellezza, l’armonia e l’unicità del nostro pianeta nella speranza che un numero maggiore di persone vorrà proteggerlo. Sono fermamente convinto che se c’è una speranza di salvaguardia per il mondo naturale sia solo se si riescono a coinvolgere le persone a livello estetico.
George Orwell scrisse che “Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”. Io ritengo anche che, nel tempo dell’orrore universale, diffondere la bellezza sia un atto rivoluzionario. Nel mio piccolo vorrei cercare di contribuire ad una nuova rivoluzione della bellezza.