Fuga in Messico

Fuga in Messico (dove tutto è possibile)

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Fuga in Messico (dove tutto è possibile)


Di Liliana Adamo 

Attraverso miti indios e cultura indigena, da Città del Messico alla penisola dello Yucatàn, un viaggio intrapreso sull’onda di suggestioni cinematografiche e letteratura beat, fino al silenzio di una natura sconfinata e per certi versi, misteriosa


Film, Beat Generation e fantasmi. Suggestioni.

In individui pressoché sani di mente resta inconfutabile come certa cinematografia eserciti una sorta di traslazione, un meccanismo psichico chiamato transfert. Per cui guardando Puerto Escondido di Gabriele Salvadores (1992) ero giunta a conclusione che il personaggio principale del film, quel Mario Tozzi interpretato da Diego Abatantuono… beh, ero io. Un transfert protratto fino al momento in cui presi un aereo con destinazione Centro America.

In una mirabolante fuga sulla Mexican Pipeline, con riprese sulle dune di Playa de Amor, tra surfisti, bambini di strada che giocano con l’oceano e pellicani che atterrano sulle barche di Puerto Angel, il protagonista arriva nello stato di Oaxaca, dove: “il sole carbonizza i capelli e fa colare il cervello dal naso”, sorpreso di trovarsi in un: “senso di vastità che in Europa si è estinto, nella memoria genetica di almeno dieci generazioni”.

Narcotraffico, sparatorie, roghi di marijuana, poliziotti in veste di criminali, furti subiti o portati a segno: tutto cambia per Mario Tozzi, ex vicedirettore di banca a Milano, testimone scomodo di due delitti. Lontano dalla frenesia europea, nel silenzio di una natura sconfinata, nei segreti oscuri della cultura indigena, stringe nuove amicizie con cui divide un percorso di vita fatto d’espedienti, inevitabilmente, on the road. Di sicuro è una seconda occasione, la rinuncia (per forza di cose), alle false certezze di una vita “integrata”. 

 “Quel crudo, minaccioso, spietato azzurro messicano…”

Da Puerto Escondido e Oaxaca, la mente corre a Città del Messico, capitale per antonomasia del crimine. Ci sono fantasmi che girano indisturbati a Città del Messico? Due, di sicuro: dal bancario milanese di Puerto Escondido, coinvolto in un duplice omicidio, allo scrittore maledetto, William Seward Burroughs, un parallelo per nulla azzardato. Far rivivere Burroughs e la sua giovane compagna, da lui uccisa – accidentalmente? – con un colpo di pistola alla testa, a Città del Messico – è semplice:Il posto è uno di quelli che ha più confidenza al mondo con la morte e i suoi derivati…”.

Lo scrittore descrive la città parlando di avvoltoi volteggianti, figure retoriche e identità del male: “Quando ci abitavo, alla fine degli anni Quaranta, aveva un milione di abitanti, l’aria pulita e frizzante e il cielo di quella speciale sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi volteggianti, il sangue e la sabbia, quel crudo, minaccioso, spietato azzurro messicano…”.

Yucatàn: un’antica catastrofe. Presumibilmente, un asteroide?

Un territorio esteso su una superficie di 1.972.550 kmq, il cui nome, Mèxico, deriva da un’etimologia risalente a una divinità di guerra, “luogo dove vive Mèxtli”, ma può avere origine anche dal cosmo, Il Centro della Luna; dove Teotihuacan fu la più grande città-stato precolombiana e domini teocratici furono governati da misteriose civiltà, (Zapotechi, Maya, Toltechi, propugnatori quest’ultimi di sacrifici umani). Una capitale sacra ai Toltechi, Tollan (l’attualeTula) e una per l’impero azteco, Tenochtitlàn, che sorgeva come Venezia, su diverse isole del lago Texcoco, distrutta dai conquistadores spagnoli nel 1521.

Immagina un entroterra di montagne e vulcani tra due oceani, Pacifico e Atlantico, fino al Golfo del Messico. Immagina una penisola sul Mar dei Caraibi che si prolunga verso il Belize, a sud: è la regione del Quintana Roo, particolarmente abitata dai Maya (Yucatàn, in lingua madre, vuol dire, noi non vi capiamo), luogo unanimemente prediletto dai viaggiatori occidentali, me compresa.

La sua fama risale da almeno sessantacinque milioni di anni, da quando, a Chicxulub un asteroide in impatto con la Terra vi scaricò la potenza pari a un migliaio di bombe atomiche o giù di lì, ponendo fine, secondo la teoria più accreditata, all’era dei dinosauri. Quel cratere formatosi dal terribile urto (trecento km in diametro), è ora sepolto in profondità mentre residui sono ancora visibili in superficie. In perfetta sequenza, lungo l’intero perimetro della penisola, la collisione ha formato misteriose cavità incastonate in scenari favolistici, collegati tra loro da lunghe gallerie naturali (fino a 600 metri), i cenotes.

Zat-ay-Uinic, vuol dire “rinascita” nella lingua dei Maya

Effigie celesti scolpite dal meteorite, gli antichi Dzonot erano sacri ai Maya. I sacerdoti si affidavano al canto del Mot-Mot (mitico uccello che nidificava in queste cavità), per trovarne sempre di nuovi dando loro nomi fantasiosi (Dos Ojos, i due occhi), mistici (Kukulkan), efficaci (Bat Cave, la caverna dei pipistrelli).

I  cenotes avevano diversi funzioni: oltre a fornire acqua dolce, rappresentavano il punto di contatto con le divinità dell’inframondo, luogo destinato ai sacrifici umani: per i prescelti, le pareti levigate di questi crateri non avrebbero dato scampo, impossibile risalire!

In un’atmosfera surreale, scandita dall’acqua che leviga le rocce, schivando pesci gatto e stalattiti, oggi, sono i turisti a immergersi nei cenotes. Sotterranei e cupi se si tratta di grotte, o cristallini se rinvenuti in superficie in mezzo alle foreste (come ad Akumal, per esempio), in ambedue i casi, provare sul proprio corpo l’impatto di quelle acque gelide, tuffarsi nei cenotes, si tramuta in un’esperienza ascetica/profana, metafisica/terrena.

Il Gran Cenote (o Ik Kil), dedicato a Chaac, dio della pioggia, è situato nei pressi di Chichen Itzà, imponente sito archeologico tolteco, vale a dire, la città che con il suo pentaedro immaginifico, la sua piramide, ha guidato i miei sogni per almeno sette mesi prima della partenza.

Arrivo nella penisola dello Yucatàn insieme all’uragano Patricia. Nelle ventiquattro ore successive raggiunge la categoria 5, massimo grado della scala Saffir-Simpson, il ciclone tropicale più intenso mai registrato nell’emisfero occidentale, con venti superiori a trecento chilometri orari, veloci quanto il Boeing 767 che mi ha portato fin qui. Nondimeno, i demoni benevoli sono dalla mia parte e la perturbazione non raggiunge la regione, né restituisce il fenomeno del sargassum, lasciando intatto il colore cangiante di smeraldo al Mar dei Caraibi. Uniche testimonianze sono quei tronchi sradicati sulla battigia, frammenti di barche, perfino una tavola di wind surf (dove sarà finito il surfista?), ma sargassum, per buona sorte, no.

Con lunghissime spiagge bianche e nei dintorni, isole incontaminate (Cozumel, Mujeres, Holbox e la bellissima Contoy, riserva del biosistema, importante rifugio per gli uccelli marini dei Caraibi messicani), Playa del Carmen e Cancún restano i luoghi più desiderabili dello Yucatàn. Due località sexy e informali, ricche d’iniziative culturali, laboratori multietnici dove, anno per anno, ogni più rosea previsione è puntualmente superata. La vegetazione tropicale, i profumi, uccelli variopinti, una fauna esotica unica al mondo (gli animali girano indisturbati, come i curiosi sereke), tutto da tempo vagheggiato, passa attraverso una sola percezione, è il Messico!

Tulum è l’antica Zamà, rappresentazione del dio discendente.

Zamà, città sacra al “dio discendente” (al sole calante raffigurato al tramonto, con coda d’uccello e ali, a testa in giù e gambe divaricate), ex rifugio hippie, odierna Tulum sulla Riviera Maya, è, senza eufemismo, uno scenario fra i più affascinanti al mondo. A quaranta chilometri a nord, lungo la Carrettera del Quintana Roo, fra scimmie urlatrici e coccodrilli (in uno specchio d’acqua dove abbondano), si trova il sito archeologico di Cobà. Assediato dalla giungla che s’impossessa delle piramidi (realizzate e forse abitate, tra il 500’ e il 900’, fino all’arrivo degli spagnoli), Cobà è un’area che resta ancora da esplorare, scavare, approfondire.

Eretta su alte scogliere, Zamà fu la prima a essere avvistata dai conquistadores: il 3 marzo 1517, raggiunti dalle piroghe, tre vascelli carichi di soldati si apprestano sulla costa risolvendo la questione con una carneficina. Tulum era un fiorente centro commerciale, asse di congiuntura tra l’Altopiano messicano e l’America Centrale. Le piccole imbarcazioni ormeggiavano nell’insenatura di Playa Paraiso, da cui oggi, ammiriamo il Castillo, dove la luce è accecante e i riflessi s’insinuano fra massi e piante: le barche trasportavano miele, sale, pesci, oggetti d’ossidiana, piume di quetzal e ogni conflitto, prima d’allora, era quasi sconosciuto.

Attraverso un angusto anfratto nella roccia, si entra nell’area archeologica adiacente, uno spazio aperto che sembra sospeso tra cielo e terra. Nella prepotenza della natura, la porta dell’Eden rivela il Tempio degli Affreschi, offrendo alla vista lo spirito più genuino del popolo Maya: in una visione, la dea Ix Chel si lascia accompagnare dal dio Chaac.

A Chichén Itzá, “alla bocca del pozzo degli Itzá”

Felci, orchidee, bromelie, alti fusti come titani: il passaggio alla città precolombiana profuma d’incenso e ricco di vegetazione. Si è rapiti e silenziosi dinanzi alla piramide di Kukulkan che appare in tutta la sua imponenza (nonostante non sia altissima, ventiquattro metri circa), dopo un fondo naturale rasentato da un intrico di piante e alberi, che sembra soggiogare le altre costruzioni in pietra.

Visione del mondo e dell’universo, la torre astronomica segue i movimenti della luna, del sole, di Venere. Puntualmente, alle 15.00 nel giorno dell’equinozio di primavera (20 marzo), in quello d’autunno (21 settembre), assorbe la luce diurna lungo il parapetto ovest della scala principale, creando un’imperscrutabile illusione ottica: ecco la curvilinea fisionomia del serpente adagiarsi sui triangoli isoscele e insinuarsi verso il basso, fino a combaciare con la testa dell’aspide, scolpita in fondo alla scala. Nei due equinozi, secondo il ricercatore messicano Luis El Arochi, si ricrea la simbolica discesa di Kukulkan, del serpente piumato, il re fatto dio.

Suddivisa a sud nelle reliquie dei Maya Puuc, a nord nell’architettura tolteca, Chichén Itzá è una città permeata di misteri mai svelati: un sussurro da un capo all’altro può essere intercettato attraverso tutta la lunghezza e il respiro di quell’enorme ball court, il campo del Gran Gioco, senza un caveau, o discontinuità tra le pareti, aperto al cielo blu dello Yucatàn. È facile immaginare il re avvolto nelle piume di quetzal, negli ornamenti d’ossidiana, presiedere quei giochi e la sfera di pietra scagliata dai giocatori verso un punto all’altro del campo. Leggenda vuole che il Capitan vincente nello juego de pelota, offrisse la propria testa per essere sacrificato, perché la morte per martirio agli dei, in nome del beneficio per l’intera comunità, era vista come la più alta ricompensa, l’onore finale.

All’interno del ball court le onde sonore restano immutabili di giorno e notte, non influenzate dalla direzione del vento e da qualsiasi condizione meteo. Gli archeologi impegnati nella ricostruzione evidenziarono come la trasmissione sonora divenisse più forte e chiara, man mano che l’antico campo dello juego risaliva alla luce. Nel 1931, Leopold Stokowski, direttore d’orchestra inglese, si fermò quattro giorni nel sito maya per determinare quei particolari principi acustici applicandoli a un concerto all’aperto che aveva in progetto; ovviamente, non vi riuscì e, a oggi, il mistero pare sia rimasto insoluto.