Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman: sociologia e fotografia, insieme.

Nella modernità liquida siamo nomadi alla ricerca di un senso compiuto. Nelle sue foto Sbaraglia rivela il mondo com’è oggi: inafferrabile, come insegna Zygmunt Bauman

L’IDENTITA’ COSTRUITA NEL CONSUMO


Testo di Benedetto Vecchi

Fotografie di Simone Sbaraglia

Scatti di donne e uomini in movimento, sfuggenti, ma in un incessante attraversamento dei templi secolarizzati del consumo. Centri commerciali, vetrine, manichini vestiti di tutto punto che ammiccano seducenti da vetrine colme di merci. Le foto di Simone Sbaraglia sono la rappresentazione di identità poliedriche e transitorie che trovano nel consumo il loro ambito privilegiato. Tutto dunque deve essere patinato, levigato, rimuovendo ogni asperità. Sono infatti identità patchwork, che si indossano e si dismettono a ogni cambio di stagione. Bella è la foto con una bambina che spinge un carrello in attesa di essere riempito, quasi a segnalare che la produzione di identità simulacri di una vita agognata ma mai raggiunta inizia fin dall’infanzia. E inquietanti sono gli scatti che Sbaraglia dedica a una stele, ritratta in orari diversi e dunque con luci diverse a seconda del lento procedere di quella convenzione che è il tempo sociale.

Gli uomini e le donne, ma anche i manichini ritratti sono nomadi alla ricerca di un senso compiuto alla loro vita. Sanno che la merce desiderata è il simulacro di uno stile di vita transitorio, propedeutico tuttavia a uno status che ratifica l’essere momentaneamente integrati in una modernità che fa del movimento tra inclusione ed esclusione il suo tratto distintivo. Per Sbaraglia sono identità liquide, dunque inafferrabili. Nel libro Intervista sull’identità (Laterza), Zygmunt Bauman prende di petto il tema e lo svolge secondo il stile enunciativo, cioè di un puzzle che va pazientemente costruito tassello dopo tassello.

Il consumo, tema che ritorna frequentemente nella sua lunga vita (Zygmunt Bauman è scomparso lo scorso gennaio a 92 anni, dopo aver attraversato il lungo Novecento con lo sguardo curioso e tuttavia sofferente per aver visto  naufragare utopie di libertà ed essere stato testimone dello sterminio degli ebrei europei pianificato a tavolino da solerti burocrati che va sotto il nome di Shoah), è così la chiave di accesso a un mondo dove l’identità è sempre manufatto artificiale, da acquistare e consumare velocemente. I frequentatori dei templi del consumo fotografati da Sbaraglia sono novelli nomadi in cerca appunto di un senso che né il lavoro, né la famiglia, né la religione riescono a garantire. Sono figli e figlie di una modernità implosa e resa liquida, per usare l’espressione di Bauman, che fanno del nomadismo la loro “cifra”. Nulla a che vedere con il sofferente viaggio dei migranti, figura cara a Bauman, che considerano i templi del consumo un miraggio e un orizzonte a loro precluso. Le foto di Sbaraglia colgono la rappresentazione patinata del nomadismo, perché prevedono opacità e striature, ma non sofferenza. D’altronde il feticismo delle merci deve avere un risvolto carnevalesco.

Zygmunt Bauman ha molto riflettuto sul nomadismo contemporaneo. D’altronde anche lui era un nomade, un ebreo che nella diaspora non ha mai rinunciato a una indole stanziale, gelosa della calda intimità delle case che ha abitato. Nato in Polonia da genitori ebrei ma poco osservanti, aveva dovuto lasciare la città di una infanzia tranquilla per l’arrivo dei nazisti. Una fuga precipitosa, quella della famiglia Bauman, che l’avrebbe condotta in Unione Sovietica. Il giovane Zygmunt Bauman ha completato gli studi e deve reinventarsi la vita. Del periodo sovietico Bauman non amava parlare. Non tanto per le ostilità incontrate quanto per la limitazione di movimento, di letture a cui i profughi dovevano sottostare. Il suo arruolamento nell’esercito polacco è quasi sempre accennato come un fatto dovuto, anche se specificava che le truppe impegnate nella guerra contro i nazisti avevano ben poco a che fare con l’Armata Rossa. Sta di fatto che ritornerà in Polonia in bilico tra una promettente carriera militare e un ancora nebuloso percorso universitario. Sceglierà l’Università, più precisamente la facoltà di Sociologia di Varsavia, un’oasi di vivace scambio intellettuale rispetto alle rovine della Polonia considerata, con molte ragioni, la nazione più antisemita dell’Europa dell’Est.

Aderisce al nuovo regime politico. Crede che il socialismo sia preferibile all’ancient regime polacco. Legge molto, scrive poco. Solo a fine anni Cinquanta uscirà un libro sulla modernizzazione della società polacca, pubblicato in Italia con un titolo che lo racchiudono dentro il cerchio di gesso dell’ideologia dominante nel socialismo reale: Elementi di una sociologia marxista. Un libro tuttavia innovativo perché, caso raro per quegli anni a Est dell’Elba, utilizza il meglio della sociologia europea e statunitense. Parla di un paese diventato industriale, dove i legami familiari sono andati in pezzi, dove la religione ha perso la sua capacità di controllo sociale, dove le relazioni tra uomo e donna sono incentrati su una certa liberalità. Il libro piacerà al mondo intellettuale, meno ai burocrati del partito operaio polacco al potere. Sono gli anni della scoperta di Italo Calvino e di Antonio Gramsci, letti entrambi avidamente e stelle polari della sua prassi teorica per decenni.

Zygmunt Bauman prende cautamente le distanze dal regime. Si schiera con i “riformatori” e, quando le strade di Varsavia e Cracovia si riempiono di studenti che chiedono un cambio di rotta al partito, è al loro fianco. Una scelta di campo che pagherà in termini di carriera universitaria (è una delle personalità eccellenti della Facoltà di Sociologia). Ma il fattore che lo porterà alla scelta dell’esilio è un’altra. E’ un ebreo, sposato ad un’ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti: per lui è intollerabile che il potere utilizzi un rozzo antisemitismo per mettere la popolazione contro gli studenti. Lascerà la Polonia con destinazione Londra, dove dirigenti laburisti offrono aiuto e assistenza a chi è in rotta di collisione con il socialismo reale senza per questo diventare anticomunisti. Entra nell’Università di Leeds. Legge avidamente i teorici della “nuova sinistra inglese” e rimane colpito dal pionieristico lavoro di Edwar P. Thompson sulla “formazione della classe operaia”. E’ di quegli anni la pubblicazione del saggio Memorie di classe (Einuaudi). Come Thompson prende le distanze da una visione deterministica, economicistica della classe operaia. Certo la collocazione produttiva ha un ruolo fondamentale nella sua formazione, ma a dare corpo al suo diventare soggetto collettivo e politico sono le consuetudini, gli stili di vita, insomma le relazioni sociali e culturali di prossimità.

Ma Bauman non si sente a suo agio nel Regno Unito. Nuovo trasloco, questa volta verso Israele, paese dove rimane per due anni per poi abbandonarlo ritornando a Leeds. Fa i conti con il suo ebraismo nello splendido saggio Modernità e Olocausto (Il Mulino) arrivando a sostenere, come avevano già fatto Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, che il nazismo e l’antimesitismo novecentesco non erano un residuo del passato, ma attingevano nella tendenza alla burocratizzazione della vita sociale, alle ambivalenze sul predominio della ragione dell’illuminismo. Sono gli anni nel quale approfondisce il concetto di ambivalenza e di modernità, come testimonia il libro Sull’ambivalenza pubblicato in Italia purtroppo molti anni dopo la sua uscita in Inghilterra da Bollati Boringhieri.

Se il nomadismo fisico termina con l’insegnamento definitivo a Leeds, quello intellettuale continua a manifestarsi nelle centinaia di libri che legge e scheda. Il meglio del pensiero critico e della letteratura europea è letto, annotato, richiamato nei suoi libri. Bauman però è ricordato come il teorico della modernità e della società liquida. L’idea di base è semplice. La modernità, nella sua incessante destrutturazione delle istituzioni tradizionali (famiglia, chiesa, partiti, impresa) è giunta ad un punto che non può raffermare, consolidare, stabilizzare, solidificare altre istituzioni. E se per Marx il capitalismo aveva dissolto tutto, la modernità di fine Novecento rende tutto fluido, liquido appunto. Allo studioso spetta il compito di descrivere il flusso continuo di consuetudini, attività economiche, sociali, politiche che come un fiume continua a scorrere rendendo impossibile il suo agglutinamento in nuove istituzioni. E Zygmunt Bauman rimarrà scettico anche nella capacità di prevedere la sua direzione. La globalizzazione, altro tema caro allo studioso polacco, è un tritacarne che tutto macera. Rende il mondo piccolo, perché lo porta nelle case attraverso i media (la televisione prima, Internet poi); facilita la formazione di una rapace élite globale, mentre il resto dell’umanità è condannata a una mobilità limitata, ma legittima le migrazioni, fenomeno destinato a diventare permanente. Mette in crisi il concetto di progresso, perché il capitalismo non garantisce più quella inclusione differenziata: semmai rende operativa l’unica impresa che non conosce crisi, quella che produce, scrive, “scarti umani”. L’unico elemento che dà misura del proprio essere al mondo – qui l’eco di Hannah Arendt è significativo – è il consumo.

Bauman diventa, suo malgrado, uno dei più attenti interpreti della globalizzazione della modernità capitalista. Lo Stato, afferma, non riesce più ad essere il giardiniere che cura il parco, progetta il suo sviluppo, intervenendo per evitare danni. Si ritira, cancellando una delle conquiste più importanti del secolo breve: il welfare state, che garantiva sicurezza e una gestione oculata delle risorse economiche per prevenire l’insorgenza di radicali disuguaglianze sociali, un rischio elevato per le fragili democrazie europee e statunitense di diventare le tristi ancelle di un sistema sociale che produce a ritmi forsennati solo “scarti umani”.

Negli ultimi anni Bauman commentava amaramente il successo delle sue opere, inversamente proporzionale alla velocità di quel flusso ininterrotto di “accadimenti” qualificato come neoliberismo. Da buon lettore di Gramsci, non credeva all’attualità dell’intellettuale organico a un partito o a una classe. Ma non amava neppure la figura dell’intellettuale specifico di Michel Foucault che, all’interno della sua disciplina, svela la fitta rete tessuta dal potere costituito per governare la società. Citava l’intellettuale amante della libertà caro a Edward Said come stella polare del suo continuo macerare appunti, riflessioni, svelamenti della modernità liquida, che forse non è possibile contenere dentro una griglia teorica in odore di ortodossia, come è quella neoliberale, ma che può essere raccontata, come faceva l’amato Italo Calvino nel romanzo di viaggio più eccentrico e postmoderno che abbia mai scritto. Solo una lettura distratta può infatti considerare  Le città invisibili un parto della fantasia, perché la loro invisibilità è tale solo per chi aridamente nega ogni possibilità di immaginazione a chi, senza cercare onore e gloria, prova a raccontare il mondo come è. E come è auspicabile diventasse.



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