Il sangue della Terra

Anima Mundi

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Il sangue della Terra


 

La brama di oro nero rischia di spezzare definitivamente il fragile equilibrio della foresta Amazzonica e il clima del Pianeta. La resistenza indigena contro la devastazione ambientale


L’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del mondo, si estende dalle rive dell’oceano Atlantico ai piedi delle Ande.  Uno straordinario ecosistema verticale, da terra fino alle cime degli alberi, che vive in un delicato equilibrio su un terreno povero di sostanze, capace di produrre un quinto dell’acqua dolce che scorre nel mondo e dell’ossigeno atmosferico, di assorbire un quarto di tutta l’anidride carbonica e di regolare il clima globale.

La foresta ospita il 30% della biodiversità globale e 400 distinti popoli indigeni che dipendono dalle sue risorse per la sopravvivenza fisica e culturale.

Grandi e piccoli interessi economici rischiano, però, di spezzare irrimediabilmente questo equilibrio. L’industria del legname e quella della carne strappano risorse alla foresta lasciandosi alle spalle un terreno inaridito ma, come non bastasse, lo sfruttamento non si ferma alla superfice.

Petrolio amazzonico e clima

Oggi, una minaccia gravissima incombe sulla regione più occidentale della foresta: l’apertura di nuove aree alla trivellazione petrolifera.

In Amazzonia i campi petroliferi esistenti, e quelli proposti, coprono già una superficie di 283.172 miglia quadrate. Un’area più grande della Francia. I governi nazionali che controllano questi territori intendono rilasciare nuove concessioni anche in zone incontaminate, come quelle nel Parco Nazionale Yasuní, Riserva della Biosfera dall’Unesco, in Equador.

In un’assurda classifica verso l’abisso, le trivellazioni nella foresta pluviale amazzonica raddoppiano i rischi della deforestazione: non solo si riduce la capacità della foresta di assorbire anidride carbonica e produrre ossigeno ma, in più, si libera dal sottosuolo un combustibile fossile.

A tal proposito, l’allarme della comunità scientifica è chiaro: per allontanare la possibilità di una catastrofe climatica è indispensabile che almeno l’80% dei rimanenti combustibili fossili sia lasciato nel terreno.

Tutti i modelli segnalano che il rilascio in atmosfera dei gas serra prodotti dalla combustione del petrolio, unito all’abbattimento della foresta pluviale, avrà pesanti implicazioni sulla stabilità globale del clima.

Le alterazioni creeranno, o peggioreranno, gravi siccità o alluvioni che, partendo dall’emisfero occidentale, e attivando una reazione a catena, potrebbero condurre a un collasso ecologico planetario.

Diritti indigeni e transizione

L’espansione della frontiera petrolifera in Amazzonia, inoltre, minaccia direttamente la vita, il sostentamento e la cultura di centinaia di comunità indigene, comprese quelli che vivono in isolamento volontario.

Dove la linea del petrolio è già arrivata, ha inquinato fiumi e foreste, distrutto i mezzi di sussistenza causato una devastazione culturale. Allargare il fronte significa approfondire tali impatti.

Oggi, in prima fila, in questo movimento per la salvezza del pianeta sono proprio gli indigeni, incolpevoli vittime di un clima che cambia.

E’ nostro compito, consumatori occidentali, rifiutare l’utilizzo di petrolio amazzonico e sostenere l’applicazione delle norme che dovrebbero proteggere i diritti e territori dei popoli indigeni, abitualmente ignorate dai governi e dalle compagnie petrolifere. Consapevoli che, in quella parte del mondo, le economie degli Stati dipendono dalle entrate petrolifere. Per questo occorre individuare percorsi equi per una transizione che non finisca per caricare il peso della liberazione dai combustibili fossili proprio sui più deboli e innocenti.


Diritti?

Formalmente i popoli isolati dell’Amazzonia godono di protezioni e garanzie per quanto riguarda il loro territorio, la loro cultura e il diritto alla sopravvivenza.

In Equador, ad esempio, la Costituzione riconosce i diritti degli indigeni e vieta le attività estrattive nel loro territorio etichettandole come etnocidio.

Ma il diritto indigeno al consenso libero, prioritario e informato (FPIC) è raramente implementato correttamente e quasi mai ha la forza di impedire i progetti governativi di estrazione.

Spesso, poi, l’informazione alle comunità locali sugli effetti a lungo termine dei progetti di estrazione viene,  semplicemente, negata e la consultazione degli indigeni arriva solo dopo che i contratti di concessione sono stati firmati, gli investimenti sono stati avviati e molto denaro è già passato di mano. A questo punto, che forza hanno i diritti degli indigeni, il loro futuro, il benessere dei loro territori e delle loro comunità?