Dai primi epici esploratori ai moderni ricercatori, la storia di un ambiente riconosciuto come terra di pace e di scienza
di Marco Ferrazzoli
Collaborazione di Serena Pagani
Scott, Amundsen, Shackleton… Nell’epoca di Internet, dei voli di linea e dei tessuti tecnici arrivare in Antartide forse non ha più lo spirito eroico e avventuriero che animò i primi, eroici esploratori. Ma anche oggi chi voglia vivere qui deve affrontare distanze e difficoltà non banali. Intanto, deve essere un ricercatore, possedere competenze adeguate e proporre progetti tali da interessare uno dei programmi di ricerca nazionali. Per lavorare nel continente bianco è infatti necessario ottenere accoglienza e supporto logistico nelle poche basi presenti sulla costa o nelle pochissime all’interno, dove hanno stabilito sedi solo Italia, Francia, Usa e Russia. Poi bisogna superare un corso di addestramento di durata e impegno diversi a seconda della destinazione e della durata della permanenza. A questo punto bastano tre giorni di voli, l’ultimo dei quali parte da Christchurch, salvo che non ci si metta per mare, nel qual caso occorre una settimana di rotta dalla Nuova Zelanda o dalla Tasmania. E sempre che i ghiacci non intrappolino e portino alla deriva la nave, come capita con una certa frequenza.
Anche nella nostra tecnologica ed evoluta epoca l’Antartide continua insomma a possedere più di qualche elemento ‘estremo’. Vivere alla latitudine polare, per 24 ore nell’oscurità totale o in un giorno sempre illuminato, affrontare escursioni termiche di decine di gradi centigradi e una temperatura media di -50, montare un campo remoto o trovarsi in una stazione a centinaia di chilometri dall’abitato più prossimo sono esperienze che richiedono una capacità di adattamento e uno spirito di sacrificio non comuni. L’Antartide è un laboratorio naturale – 13 milioni di kmq con la maggiore altitudine media del pianeta, coperti quasi totalmente dalla calotta glaciale e in gran parte inesplorati – ma anche umano.
L’unica domanda che non ha senso porre a un ricercatore che va, sta o è stato a oltre 15 mila chilometri da casa, è per quale ragione lo faccia. La risposta è intuitiva. La ricerca scientifica porta con sé per definizione la passione per l’ignoto, il desiderio di conoscenza, la curiosità. E anche un pizzico di quello spirito di avventura che a latitudini così remote e in ambienti così estremi non può per l’appunto mancare, per quanto oggi la tecnologia offra condizioni di assoluta sicurezza e possibilità di contatto relativamente comode.
Le prime missioni verso il e nel continente antartico si sono susseguite dalla metà del ‘700 e hanno impegnato esploratori i cui nomi restano epici: James Cook, il primo a navigare oltre il circolo polare; Jules Sebastien Cesar Dumont d’Urville, che dall’Astrolabe scoprì la Terra Adelia; James Clark Ross, che con l’Erebus si spinse fino alla grande barriera di ghiaccio che oggi porta il suo nome. Autori di imprese che rappresentano pagine di storia e di libri sempre affascinanti. Su tutte forse la gara ingaggiata da Robert Falcon Scott e Ronald Amundsen: entrambi partirono dal mare di Ross ma fu il norvegese a raggiungere il Polo Sud cinque settimane prima del britannico, con un successo coronato dalla salvezza dei suoi uomini, mentre Scott e alcuni dei suoi pagarono con la vita l’aver affrontato le terribili difficoltà e le avverse condizioni antartiche con alcune sciagurate scelte tecniche e logistiche. Un’altra spedizione memorabile – in qualche modo la sintesi delle due – fu quella di Ernest Shackleton: fallì l’attraversamento a piedi dell’Antartide ma salvò tutti i suoi. E poi Caroline Mikkelsen, la prima donna a sbarcare nel continente. E, finalmente, i primi italiani tra cui Ardito Desio, i primi interventi istituzionali del Consiglio Nazionale delle Ricerche nella Terra Vittoria, fino a che nel 1985 venne istituito il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), che da allora gestisce le nostre attività scientifiche con il finanziamento del MIUR e il coordinamento di CNR ed ENEA.
Siamo arrivati relativamente tardi. Ma abbiamo recuperato ampiamente. La ricerca italiana antartica si estende sui principali fenomeni globali, include scienze della Terra, fisica dell’atmosfera, cosmologia, biologia, medicina, oceanografia. Ed è supportata da una tecnologia e da una logistica estremamente impegnative. È anche grazie all’Italia se in Antartide il principio della cooperazione scientifica è prevalso su quello della competizione e dello sfruttamento geo-politico, militare ed economico: se – con il Trattato Antartico al quale hanno aderito complessivamente 50 Paesi che coprono più dell’80% della popolazione mondiale e al Protocollo di Madrid che ha vietato lo sfruttamento dei minerali e degli idrocarburi di cui l’Antartide è ricca – l’Antartide è una “terra di pace e di scienza”, come viene definita. Ora però la creazione dell’Area marina protetta della regione del mare di Ross, la più grande al mondo, ci offre un’ulteriore e strategica opportunità.
“Il nostro Paese, grazie alle competenze in ambito biologico, oceanografico, fisico, geologico e meteorologico consolidate con la trentennale attività di ricerca presso la Stazione Mario Zucchelli a Baia Terra Nova, occupa una posizione di grande rilievo per le attività previste dall’Area appena istituita” spiega Antonio Meloni, presidente della CSNA (Commissione Scientifica Nazionale per l’Antartide). Con una superficie di circa 1,57 mln di kmq, più del doppio di Adriatico, Ionio e Tirreno messi insieme, la riserva ospita centinaia di specie tra i quali i pinguini di Adelia e Imperatore, foche, balenottere. Nonché pesci molto particolari che, per vivere in questi freddissimi mari dove le temperature scendono sotto lo zero, sono dotati di un curioso metabolismo: una sorta di antigelo naturale, ritmi cardiaci rallentatissimi e un sangue ‘bianco’ privo di emoglobina.
L’Area impegna i Paesi sottoscrittori – tra i quali i membri dell’Unione Europea e i 24 della Commissione per la conservazione della fauna e della flora marina dell’Antartide (CCAMLR) – a promuovere attività di ricerca sull’intero ecosistema del Mare di Ross e sull’influenza che i cambiamenti climatici esercitano su di esso, limitando fortemente o vietando la pesca commerciale che si è spinta fino a queste latitudini. “L’istituzione dell’Area marina oltre a rafforzare la protezione dell’ecosistema marino del continente bianco e degli organismi che lo popolano, rappresenta una grande opportunità per l’acquisizione di nuove conoscenze, funzionali ad una migliore gestione delle risorse di pesca antartiche”, commenta Laura Ghigliotti dell’Istituto di scienze marine del CNR. Un successo che ha richiesto cinque anni di trattative. La posizione chiave dell’Italia è stata confermata dalla richiesta di occuparsi del primo meeting operativo, che si terrà durante la primavera 2017 per avviare il coordinamento delle attività necessarie alla nascita dell’area.
L’Antartide è l’unica parte del pianeta non assoggettata alla sovranità di alcuno Stato e dove è esclusa ogni attività a carattere militare. La ricerca scientifica e il principio di collaborazione che la anima hanno prevalso sulle spartizioni di potere e sul colonialismo. La battaglia per la libertà della conoscenza è stata almeno per ora vinta grazie anche al ruolo rilevante dell’Italia. Sono decine i ricercatori e logistici italiani che ogni anno affrontano l’avventura antartica: biologi, fisici, medici, ingegneri, ma anche informatici, operai, personale di segreteria e amministrativo, cuochi… Lo spettro delle attività in cui questa comunità scientifica e umana è impegnato è quanto mai vario, poiché soltanto mettendo a fattore comune approcci e conoscenze diverse si può cercare di comprendere un ecosistema così particolare e correlato in modo così complesso alle dinamiche e allo stato di salute dell’intero pianeta terrestre.